CULTURA

Chiara Gamberale nel grembo paterno

Chiara Gamberale torna in libreria, al quindicesimo romanzo, “come fosse un esordio” dice. È Il grembo paterno (Feltrinelli, 2021) nel quale la narratrice, così amata trasversalmente dal grande pubblico e dai lettori esigenti, mette sulla pagina quel complicato intrico che è la definizione di chi noi siamo e da dove veniamo, con un occhio di riguardo per quella metà del mondo, quella maschile, per la quale Gamberale riesce a trovare le parole, quando di solito gli uomini non le spendono per spiegare la propria interiorità.

È la storia di Adele, quella che racconta, e della sua imperitura Adelescenza, titolo del programma che per anni ha condotto dopo un’esperienza di reality ante-litteram, ma anche, fuor di metafora, della sua vita fino al momento presente in cui la parte di sé bambina, e poi adolescente, e la donna quarantenne, con una figlia di tre anni avuta con l’inseminazione artificiale nell’anonimato del donatore, si toccano e mostrano, se non proprio un senso, almeno un disvelamento di possibilità.

Gamberale trova le parole per Rocco, padre di Adele, uomo burbero che ha tentato di non farle mancare nulla e non si capacita che lei, che da mangiare ne ha – visto che lui dall’essere un Senzaniente ha messo su un supermercato – quel che ingerisce avidamente poi lo vomiti, ma, riflette Adele: “Eravamo più bravi ad aver fame che a mangiare”; Gamberale trova le parole per Nicola, pediatra di successo, autore di saggi, che la irretisce con la sua collaudata sicurezza, regalandole una narrazione del mondo in cui tutto torna: “Perché eravamo solo quello, fino a quel momento, parole, eppure niente, mai, mi aveva fatta sentire così guardata, ascoltata respirare, tenuta stretta”.

Mette sulla pagina cioè due uomini che rappresentano gli opposti – il mondo edipico delle relazioni feroci di famiglia da una parte (Rocco tradisce la moglie con Rita, e Adele si sente investita, in primis da se stessa ma anche dalla madre, di custodire e salvaguardare l’amore di suo padre, di trattenerlo in famiglia, di cacciare via il fantasma di una donna che – a quei tempi – nulla avrebbe potuto chiedere più del cantone di ombra che le era riservato) e il mito di Narciso dall’altro, che muore consumato dall’amore irrealizzabile per se stesso (Nicola è un uomo sposato che costruisce per sé l’immagine impeccabile di padre, marito e amante, e tradisce così la fiducia di tutti, ma con parole bellissime).

E poi ci sono le donne: la voce narrante, che è l’insieme di tutte le voci della sua vita fin lì vissuta, la madre, l’amante del padre, le amiche traditrici dell’adolescenza, la moglie dell’uomo che ama e infine lei che da lei è discesa: la figlia Frida, così piccola eppure immensamente potente, che con il suo arrivo ha rovesciato quanto finora era inevitabilmente stato, cioè la sua perenne lotta con il corpo, e dietro il corpo, con il cervello, con il cuore.

Ma è allora, è allora che, ecco. Sono diventata tutta corpo. A ogni chilo era più leggero, come se ospitare un altro gli consentisse finalmente di accedere alle sue gambe, ai gomiti, godere dei talloni. Mi sentivo forte, bellissima. Perché proprio lui, quel corpo troppo magro, comunque grasso, troppo grasso, comunque magro sfidato, offeso, liquidato, prestato a chiunque me ne chiedesse un po’, ha detto, adesso basta, adesso comando io, e non c’è stata più nessuna distanza che sapessi, volessi tenere dal puntino che poi si è trasformato in un limone, in una cocorita, in una scimmia ballerina che si muoveva nella mia pancia e oggi è Frida. Mia. Figlia. Che stanotte, mentre la vorrei con me in questo letto, è con me in questo letto. Che ha guarito, ammalandoli, tutti gli equilibri. Perché forse è semplice: è così. Quello che ci guarisce è quello che ci ammala. E in fondo che cos’è. È la vita. Sono gli altri”.

E nell’alternare i piani della narrazione tra il passato e il presente, quando Nicola non c’era, quando Frida non c’era, quando Rocco era solo un padre e poi quando invece d’un tratto tutto è cambiato – senza però voler dire che una cosa scaturisca dall’altra, perché nella vita raramente valgono i nessi di causa-effetto e l’autrice di questo è fin troppo consapevole –Chiara Gamberale suggerisce un’onesta e a tratti stupefacente verità: “[…] Non c’è una così grande differenza [tra bene e male], perché chi lo sa cosa chiamiamo bene e cosa chiamiamo male, quando qualcuno ci bussa al sangue e poi ci raggiunge dove non eravamo arrivati nemmeno da soli”.

La abbiamo intervistata.

Quello che ci guarisce è quello che ci ammala. E in fondo che cos’è. È la vita. Sono gli altri Chiara Gamberale

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