SOCIETÀ
Chilometro zero e filiera corta. Davvero sinonimi di sostenibilità ecologica?
È stata approvata alla Camera lo scorso anno la proposta di legge sulla valorizzazione e la promozione dei prodotti agricoli e alimentari provenienti da filiera corta e a chilometro zero che punta a sostenere il commercio di prodotti del territorio e le economie locali. Costituito di sette articoli, il testo, oltre che definire i concetti di prodotto alimentare e agricolo a chilometro zero e di filiera corta (dove i primi si intendono alimenti venduti e consumati entro 70 chilometri dal luogo di coltivazione o di trasformazione della materia prima e i secondi come provenienti da una commercializzazione priva di intermediari commerciali, o che ne preveda al massimo uno), definisce le finalità e le caratteristiche di vendita di questi prodotti e introduce alcune novità. Tra queste, l’istituzione del logo di identificazione "chilometro zero o utile" e "filiera corta" che dovrà essere esposto nei luoghi di vendita diretta, nei mercati, negozi, ristoranti e spazi della grande distribuzione, e pubblicato nelle piattaforme informatiche di acquisto o distribuzione. Tra le novità, anche il sostegno previsto per quelle strutture collettive che scelgano di utilizzare questo tipo di alimenti e le sanzioni per chi, invece, introduca nel mercato prodotti a km zero o di filiera corta senza che questi rispettino i requisiti richiesti.
La Camera ha approvato la nostra proposta di legge sulla #FilieraCorta e il Km zero, che ora passa al Senato. Comprando prodotti del territorio si fa una scelta sana aiutando l’ambiente.
— M5S Camera (@M5S_Camera) 17 ottobre 2018
Finalmente tuteliamo chi sceglie il cibo locale e chi lo produce! pic.twitter.com/jU2uIdh3BY
Ma sul locavorismo, termine moderno usato per indicare uno stile alimentare basato sul solo consumo di prodotti locali alla riscoperta del sapore della natura nel pieno rispetto dell’ambiente e della stagionalità, non tutti sembrano essere d’accordo. Senza dubbio il locavorismo si è consolidato negli ultimi anni anche in risposta alla crescita della globalizzazione dell’industria alimentare, all’incremento dell’import ed export di alimenti e materie prime, alla crescita del numero dei grandi produttori rispetto ai piccoli e all’aumento di grandi punti vendita centralizzati; fenomeni che negli ultimi 50 anni hanno avuto nell’intero pianeta un impatto ambientale importante. Produrre e consumare a chilometro zero è da sempre considerata una scelta etica e sostenibile ma, sulla base di alcuni studi e ricerche, emerge anche un atteggiamento critico rispetto a questa convinzione. Il metro di misura più spesso utilizzato per valutare l’impatto che questo tipo di produzione e consumo ha realmente sull’ambiente, coincide con la misurazione dei chilometri percorsi dai prodotti (i cosiddetti food miles), dalla terra alla tavola. Ma per capire se il chilometro zero sia davvero ecologicamente sostenibile, questo metro non sembra essere sufficiente. Secondo uno studio pubblicato nel 2008 dall’Università di Pittsburgh (Pennsylvania), negli Stati Uniti le emissioni di gas serra derivanti dal trasporto del cibo anche su lunghe distanze, sono pari all’11% (quelle prodotte nella consegna finale dal produttore al negozio, sono pari, invece, al 4%) e sono sicuramente inferiori rispetto a quelle derivanti da tutte le fasi di produzione. In generale, l’impatto che una famiglia americana può avere quindi nella riduzione dell’emissione di gas serra con l’acquisto di cibi locali, è pari al 4-5%.
Anche in Inghilterra le cose non sembrano andare in modo molto diverso. A riferirlo è uno studio del ministero inglese Defra (Department for Envirmental Food and Rural Affairs) sull’impatto che il trasporto del cibo ha sull’ambiente e la società. La ricerca rivela che circa il 9% della produzione di gas serra legata al commercio alimentare viene attribuita al trasporto di cibo per consumo interno, compresi i viaggi per l’acquisto di prodotti alimentari a uso domestico. Se quindi il trasporto incide in maniera relativa sul legame tra cibo e sostenibilità ambientale, molto pesano invece alcuni passaggi legati alla produzione di certi cibi in luoghi fisicamente ed economicamente inadatti. Nella ricerca Air Freight Transport of Fresh Fruit and Vegetables alcuni studiosi hanno cercato di capire da cosa derivasse la scelta di coltivare pomodori in Spagna, trasportarli e poi venderli nel Regno Unito piuttosto che coltivarli direttamente in Inghilterra. Secondo i dati emersi, le emissioni di carbonio derivate dalla produzione dei pomodori nel Regno Unito, attraverso l’uso di serre riscaldate, erano quasi quattro volte maggiori rispetto a quelle prodotte dalle coltivazioni in Spagna. A fare la differenza nella produzione più o meno sostenibile di un prodotto, infatti, è anche il clima, la tipologia del terreno, le tecniche di coltivazione, i prodotti utilizzati. Nella valutazione della sostenibilità del chilometro zero va considerata anche l’alta percentuale di cibo che, non ancora maturo, viene buttato ancora prima di arrivare al consumatore. Questo succede spesso nei paesi meno avanzati economicamente dove, per mancanza di conoscenze, investimenti e infrastrutture, spesso molto cibo viene perso nelle fasi di raccolta e stoccaggio; in quelli industrializzati, invece, questo accade per lo più nella vendite al dettaglio, nel servizio di ristorazione e nelle case.
Non solo chilometri. Il locavorismo, se puntualmente seguito, potrebbe risultare non così ecologicamente sostenibile anche rispetto alla varietà dei prodotti. La scelta etica di prodotti a chilometro zero o di filiera corta preferisce, infatti, la coltivazione e l'acquisto esclusivamente di prodotti locali e stagionali. Producendo e vendendo unicamente a chilometro zero i costi degli alimenti potrebbero crescere in modo eccessivo con un impatto negativo su alcune fasce della popolazione e di conseguenza anche sulla salute pubblica.
E in Italia? L’Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare) stima che nel nostro Paese, relativamente all’emissione di gas serra, la produzione agricola sia responsabile per il 45%, i trasporti per il 19%, il packaging per il 13% e la fermentazione enterica per l’11% mentre appare più contenuto quello relativo alla trasformazione industriale (5%). Gli italiani, tuttavia, continuano a preferire la spesa dal contadino e nel 2018 secondo Coldiretti, sono 30 milioni quelli che almeno una volta al mese scelgono di comprare a chilometro zero, l’11% in più rispetto al 2017. Un trend che negli ultimi anni si conferma in continua crescita ma che difficilmente arresterà lo sviluppo della globalizzazione e dei liberi mercati. Tuttavia la scelta responsabile di quello che ciascuno di noi acquista e mangia, resta un dovere non solo per noi stessi ma per l’intero pianeta.