Bambino è il nome “di battaglia” del ragazzino imberbe protagonista del nuovo romanzo di Marco Balzano che porta esattamente questo titolo ed è appena uscito per Einaudi. Nato a Trieste nell’ anno 1900 tondo, ben presto, visti i tempi, diventa uno squadrista. Mattia – questo il suo nome all’anagrafe – scopre con orrore al capezzale di Tella che non è lei la sua mamma biologica e la rivelazione è deflagrante. Tanto più che suo padre nega: ma Mattia ne è certo.
Nascono proprio così le ossessioni. Dalle verità negate, dalle imposture proclamate, dalle ricerche inesauste di fatti che sappiamo esistere o essere esistiti e il mondo nega. Ma non è per questo che Bambino diventa una terribile camicia nera senza freni e senza remore. Balzano non costruisce un racconto in cui trovare una causa per comprendere una conseguenza, non cerca giustificazioni alla banalità del male. Racconta la storia di un uomo. E non tutti gli uomini sono buoni, o dalla parte giusta.
L’ultimo romanzo dell’autore di Resto qui è sotto molteplici aspetti un “romanzo di confine”. Non solo perché è ambientato a Trieste, città liminale per definizione, e in un periodo storico che ha portato ciascun uomo al limite, ma perché chiede al lettore (come, a maggior ragione, ha chiesto allo scrittore) di oltrepassare prepotentemente il proprio confine personale (per esempio quello delle proprie norme morali) per immedesimarsi in un personaggio che, in altre storie e altre narrazioni, sarebbe stato il contraltare, “il cattivo” da cui salvarsi, e qui invece è il protagonista.
Balzano racconta che sta proprio qui il mestiere dello scrittore. Che non è stato per lui più difficile immedesimarsi nel cattivo di quanto non lo sia stato, per esempio, calarsi nei panni di una donna in Quando tornerò, e cioè che il meccanismo della finzione narrativa chiede allo scrittore (al bravo scrittore, diciamo noi) di fare proprio questo.
E il primo dato di fatto, tanto ovvio quanto inaudito per chi legge, è scoprire che anche chi fa del male soffre. Probabilmente la soluzione di questa apparente inconciliabilità sta nel fatto che non soffriamo (solo) con la mente, che non chiediamo coerenza a noi stessi prima di pretendere giustizia dal mondo, ma che il “sentire” è qualcosa di primigenio che ci sovrasta.
“A volte andavo a trovare la Tella giusto per guardare le foto sulle lapidi. Cercare mia madre non era più un’ossessione ma una quieta disperazione. Un’abitudine che mi occupava il tempo e i pensieri, un automatismo del corpo. Le gambe mi portavano come un sonnambulo: in una piazza, sotto un balcone, in riva al mare. Appena mi sembrava di vederla mi spaventavo. Non sapevo se avvicinarmi né cosa dirle. Averla di fronte non sarebbe più servito a niente. Saremmo rimasti estranei perché questo siamo sempre stati, sin da quando sono venuto al mondo. Ecco perché in sogno non le parlavo mai. Mi bastava toccarla, conoscere il suo odore, guardare le sue mani. Ascoltare la sua voce che finalmente si rivelava. “Sei mio figlio, Mattia”: soltanto queste parole avrei voluto sentire prima di lasciarla scomparire in quell’assenza che per sempre avrebbe protetto la sua bellezza.”
Bambino conosce l’odio e la violenza (“Ero stanco e pieno di voglia di fare del male”) e conosce anche il senso di colpa (“durava poco, svaporava come fumo di sigaretta”) quando all’improvviso anche per lui, oltre i quarant’anni, viene il tempo dell’amore per una donna: “una ragazza coi capelli color rame che reggeva una piccola pentola di terracotta”. “Credo di amarti Gigliola” le confessa, felice di non riconoscersi e sentendosi un uomo migliore, ma lei non può innamorarsi di uno come lui.
Non c’è speranza di redenzione dal male?
“Era ancora vero: gli animali, i sassi e le montagne sono meglio degli uomini”.
C’è chi ci crede e non piega la testa: “Bevi ancora, bevi Bambino. Verrà il momento in cui berremo noi per festeggiare la morte di quelli come te”.
E nel buio più nero della liquirizia una lama di luce c’è. È il padre di Mattia, un pover’uomo che ha avuto in sorte d’essere il padre di un figlio che non gli corrisponde, ma che, come padre, non può che tentare di salvare fino all’ultimo. Se non può fargli salva l’anima, forse può almeno fargli salva la vita, quando la ruota gira e Bambino diventa la preda e non più il carnefice.
Capiamo fin da principio il gioco di Balzano che sceglie di scandire la narrazione con un’anticipazione, frammentata in parti che inframmezzano i capitoli, per farci volutamente presagire il peggio. La paura. La violenza. L’orrore. La fine.
Ma non importa: la vita è qui. È mentre si fa. E, potenza della letteratura, per tutto il viaggio ci sentiamo così vicini a quell’uomo brutale da poter dire “Bambino sono io”.
“ Bevi ancora, bevi Bambino. Verrà il momento in cui berremo noi per festeggiare la morte di quelli come te Marco Balzano