SOCIETÀ
Dalla collaborazione al sospetto. Com'è cambiato il ruolo delle ong in mare
Il ruolo e le attività delle ong lungo il tratto di mare tra la Libia e l'Italia sono al centro di una crisi politica (e umanitaria). L’ultimo episodio che ha riacceso lo scontro politico sulla possibilità o meno di negare l’approdo nei porti italiani a queste imbarcazioni cariche di disperati, risale a qualche settimana fa. Dopo il salvataggio di una donna africana alla deriva da due giorni, la nave Astral della ong spagnola Proactiva Open Arms, in polemica con la Guardia costiera libica e il governo italiano, ha concluso il suo viaggio in Spagna, rifiutando di attraccare a Catania considerato ‘porto poco sicuro’.
Ma cosa può fare una ong in mare? Le norme nazionali e internazionali lasciano alle organizzazioni non governative poca autonomia d’azione rispetto a questo tipo di interventi. Le attività di ricerca e soccorso in mare vengono gestite e coordinate dal Centro di Coordinamento del Soccorso Marittimo della Guardia costiera (Mrcc) che, una volta ricevuto il segnale di ‘sos’, invia l’unità navale più vicina all’imbarcazione da soccorrere tra quelle che con la Guardia costiera collaborano: Frontex e Eunavfor Med, Marina militare (anche unità militari estere), Carabinieri, Guardia di finanza, Esercito, organizzazioni non governative (operative in mare in questo tipo di emergenze dal 2014), ma anche navi mercantili e commerciali che si trovino meglio posizionate rispetto al salvataggio da effettuare. La Guardia costiera, inoltre, stabilisce anche come e dove procedere al trasferimento delle persone tratte in salvo destinandole verso uno dei porti italiani indicati dal ministero dell’Interno che, secondo la legge, dev’essere un luogo sicuro dove sia possibile richiedere protezione senza il rischio di subire abusi o persecuzioni. In altri casi, invece, sono i mezzi navali in mare che, avvistata un’imbarcazione in pericolo, informano la Guardia costiera che ha il compito di stabilire il tipo di intervento da effettuare. Di recente Tripoli ha definito una propria area di ricerca e soccorso riconosciuta dall’Organizzazione Marittima Internazionale e l’Italia e la Commissione europea stanno collaborando per rendere più efficienti i servizi SAR in Libia. Il Consiglio europeo, inoltre, ha ribadito che tutte le navi operanti nel Mediterraneo sono tenute a rispettare le leggi applicabili senza interferire con le operazioni della Guardia costiera libica.
Tuttavia proprio su questo si scontra la posizione di molte ong che, non ritenendo la Libia un approdo sicuro, rifiutano di riportare lì nel luogo da cui sono scappate, le persone salvate dall’acqua.
Secondo il rapporto 2017 della Guardia costiera italiana, le attività SAR (Search and Rescue) coordinate dal Maritime rescue coordination centre di Roma riguardano il 94% dei migranti giunti sul territorio italiano.
Solo l’anno scorso i migranti soccorsi in mare, nelle acque del Mediterraneo centrale, sono stati oltre 114.000 provenienti soprattutto dalla Libia. Di questi, 22.000 sono stati tratti in salvo dalle navi della Guardia costiera, 15.000 da Frontex, oltre 11.000 da navi mercantili e quasi 47.000 dalle imbarcazioni delle organizzazioni non governative (Moas, Seawatch, Sos mediterranée, Sea eye, Medici senza frontiere, Proactivia open arms Barcelona, Life boat, Jugend Rettet, Boat refugee, Save the children).
Medici senza frontiere è una delle ong che dal 2015 opera nelle acque del Mediterraneo centrale e che torna proprio in questi giorni in mare con la nave di soccorso Aquarius, gestita in collaborazione con Sos mediterranée. “Nel 2015 l’operazione italiana di soccorso Mare Nostrum era stata interrotta – racconta Francois Dumont direttore della comunicazione di Msf - e nell'aprile di quell’anno ci sono stati due gravissimi naufragi che in una settimana hanno portato alla morte più di 1000 persone nel Mediterraneo centrale. Per noi quelli erano i numeri di una guerra e quella è stata una delle ragioni che ci hanno fatto decidere che era giusto scendere in mare. Non potevamo più stare a guardare e dal 2015 a oggi abbiamo soccorso più di 75.000 persone.”
Molto spesso però, soprattutto negli ultimi anni, il ruolo delle ong impegnate in mare nelle attività SAR è stato messo in dubbio. Da ‘eroi del mare’, gli operatori delle organizzazioni non governative sono spesso passati dall’altra parte, al centro di polemiche e accuse; tra queste, quella di favorire in vari modi il business dell’accoglienza, di essere i taxi dei migranti, di finanziarsi in modo poco trasparente, di essere conniventi con i trafficanti. Tutto è cominciato nel 2016 con la denuncia, da parte dell’Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne Frontex, di presunti legami tra i trafficanti di esseri umani e le imbarcazioni di alcune ong attive nelle acque del Mediterraneo. Da quel momento il clima è cambiato e sono diverse le indagini aperte da alcune procure italiane, alcune della quali archiviate proprio di recente, nei confronti di organizzazioni accusate a vario titolo. Una delle imputazioni più frequenti è quella di essere ‘fattore di attrazione per i migranti’ cosa che spingerebbe molti di loro ad accettare la pericolosa traversata anche in condizioni di viaggio disperate.
Secondo il rapporto Blaming the rescuers dell’università Goldsmith di Londra non ci sarebbe invece alcuna correlazione tra l’aumento delle partenze e la presenza o l’assenza di navi di organizzazioni non governative in mare. C’è invece una connessione tra l’assenza di navi umanitarie in mare e l’aumento dei morti. Secondo quanto riferito dal rapporto, infatti, il numero maggiore di arrivi registrati nel Mediterraneo centrale nel 2016 è in linea con quello di migranti africani registrato nel 2014 e nel 2015, un periodo in cui la presenza delle navi di ong in mare era molto limitato. Il 2016 poi, è stato l’anno con il più alto numero di morti mai registrato nel Mediterraneo e con il maggior numero di navi di ong in mare, ma il tasso di mortalità risulta molto alto proprio nei primi mesi dell’anno, cioè prima che le ong tornassero in mare dopo il periodo invernale e si abbassa invece rapidamente al loro ritorno alle attività di soccorso.
“Dall’inizio del 2018 nel Mediterraneo centrale – spiega Dumont - sono morte circa 1100 persone di cui la metà dal primo giugno, da quando cioè le navi delle ong hanno cominciato a essere ostacolate nei loro interventi. Queste accuse – continua Msf – che hanno criminalizzato il ruolo e le attività delle ong, hanno sicuramente avuto un impatto forte sulla presenza delle navi in mare, oggi pochissime, con il conseguente aumento del numero dei naufragi e dei morti; inoltre, il clima di sospetto che si è diffuso, ha influito in modo negativo anche nel mondo della solidarietà andando a colpire tutte le attività che le ong svolgono nei contesti più difficili, non solo in mare”.