SCIENZA E RICERCA

La defaunazione mette in pericolo anche le piante

Con la crisi climatica, gli ambienti naturali si stanno rapidamente modificando. Le aree tropicali, che racchiudono ecosistemi complessi e poco resilienti, si fanno sempre meno ospitali; a causa del riscaldamento delle temperature medie, le nicchie climatiche si spostano verso i poli, e con esse i loro abitanti.

Gli animali – vertebrati e invertebrati di ogni genere – attuano la strategia di sopravvivenza definita habitat tracking (letteralmente “tracciamento dell’habitat”), che consiste nello spostarsi assecondando il cambiamento ambientale, per seguire la nicchia climatica alla quale la specie è adattata. La necessità di adattarsi a un ambiente in rapido cambiamento è, ovviamente, avvertita anche dalle piante: i membri di questo regno, tuttavia, non hanno – com’è ovvio – la possibilità di spostarsi da una regione all’altra. Com’è possibile, allora, che anche le piante mettano in atto la strategia dell’habitat tracking? La risposta sta nei semi. Nel corso della storia evolutiva, le piante hanno sviluppato innumerevoli tattiche per favorire la dispersione dei semi: più lontano una pianta riesce a “spedire” i propri semi, più aumentano le possibilità di diffusione – e, dunque, di sopravvivenza – della specie.

È stato calcolato che circa la metà delle specie di piante esistenti si affidino, per questo delicato compito, non al vento o ad altri agenti atmosferici, ma proprio agli animali, e in particolare ai vertebrati: la dispersione dei semi da parte dei vertebrati frugivori (che si nutrono di frutta) è la più importante funzione mutualistica offerta dai vertebrati.

Ma in che modo tutto questo potrebbe essere influenzato dalle modificazioni innescate dalla crisi climatica? Si è posto questa domanda un gruppo euroamericano di ricercatori che, con una dettagliata ricerca pubblicata da poco su Science, dimostra come vi sia una stretta relazione tra il fenomeno della defaunazione (siamo agli albori della Sesta estinzione di massa) e la capacità delle piante di adattarsi al cambiamento del clima.

Attraverso una modellizzazione delle relazioni ecologiche che intercorrono tra le piante e i vertebrati (soprattutto uccelli e mammiferi) che di esse si nutrono, i ricercatori sono riusciti a ricostruire non solo le reciproche influenze causate dalle variazioni di popolazione delle specie correlate, ma anche in che modo queste relazioni ecologiche stiano mutando in uno scenario di rapido cambiamento climatico.

Come spiegano gli autori dello studio, a risultare dirimente per la stabilità di un ecosistema, così come per la capacità di adattamento delle singole specie, non è tanto la ricchezza di specie (la diversità tassonomica presente all’interno di un ecosistema) quanto la diversità funzionale. È risultata feconda, infatti, l’idea di studiare le coppie piante-animali coinvolte in relazioni mutualistiche catalogando non le specie, ma i tratti funzionali e le loro conseguenze (ad esempio, la capacità di disperdere i semi a grandi distanze o l’innesco della germinazione nell’intestino).

Concentrando l’attenzione sulla dispersione dei semi a lunga distanza – caratteristica essenziale per garantire l’espansione delle popolazioni vegetali, per ampliare il flusso genico e, in più, fondamentale risposta adattativa ad ambienti alterati – i ricercatori hanno elaborato una serie di scenari che ipotizzano da una parte come sarebbe oggi la biodiversità se non fossero sopraggiunte le pressioni selettive causate dall’attività umana (“scenario naturale”) e che, dall’altra, mostrano la possibile evoluzione della biodiversità vegetale nel caso in cui tutte le specie oggi considerate “a rischio d’estinzione” dalla IUCN si estinguano e nel caso in cui tutte le specie non native vengano improvvisamente estirpate dagli habitat nei quali sono state introdotte.

Rispetto allo scenario “naturale” – ciò che avrebbe potuto avverarsi in un mondo parallelo non antropizzato –, la funzione di dispersione dei semi è drasticamente calata, in particolar modo al di fuori delle regioni tropicali. Nello scenario di estinzione delle specie a rischio, le riduzioni più pesanti si verificherebbero nell’Asia orientale e nel Madagascar. Questo risultato indica che, in quelle regioni, la funzione di dispersione dei semi è oggi garantita quasi esclusivamente da specie già minacciate.

Per di più, dai dati emerge che «dalle ecoregioni sono scomparse soprattutto le specie più importanti per la funzione di dispersione dei semi, e in particolar modo i grandi mammiferi che garantivano il trasporto dei semi a grandi distanze». La scomparsa dei grandi mammiferi ha un effetto fortemente negativo sulla resilienza di molte specie vegetali, come è esemplificato dalle conseguenze ecologiche dell’estinzione della megafauna del Pleistocene.

L’assenza di animali che disperdono i semi rende molto più complesso, per le piante, l’adattamento al cambiamento del clima. Il climate-tracking dispersal, cioè la capacità di “inseguire” le nicchie climatiche attraverso la dispersione dei semi, è oggi ridotto, in media, quasi del 60% a causa delle estinzioni già avvenute, e le estinzioni dei prossimi anni potrebbero causare un’ulteriore riduzione del 15% su scala globale.

«Questi risultati – riassumono gli studiosi – mostrano con chiarezza che la defaunazione ha già limitato in molte aree del pianeta la capacità, da parte delle piante che fanno affidamento sugli animali, di tenere il passo con il cambiamento del clima, e che in molte altre regioni sono proprio le specie a rischio d’estinzione a garantire la funzione di climate-tracking dispersal». Gli areali di dispersione delle piante si stanno drammaticamente riducendo, e i rischi a cui sono sottoposte molte specie di mammiferi e uccelli – conseguenze delle attività umane come la frammentazione degli habitat o altri cambiamenti legati allo sfruttamento del suolo – inaspriscono una situazione già fortemente compromessa. Ancora una volta, lo studio del tessuto ecologico della biosfera mostra come non esistano confini: tutelare specie a rischio come i grandi mammiferi o gli uccelli frugivori è essenziale anche per preservare la resilienza del mondo vegetale.

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