CULTURA

La dozzina dello Strega: Andrea Canobbio

Andrea Canobbio, nella sua ultima fatica, in dozzina al Premio Strega (La traversata notturna, La nave di Teseo, 2023), ripercorre la storia della sua famiglia, del padre in particolare, in un’operazione di scavo, come la definisce parlando del mestiere del papà ingegnere, che si trasforma qui in anelito letterario.

Per costruire bisogna prima scavare, mi sembra di averlo sempre saputo” è l’incipit del libro. “Si prepara uno scavo e si gettano le fondamenta. […] Perciò, fin da piccolo, sapevo che bisognava scavare prima di costruire”.

Questo vale tanto per l’ingegneria quanto per la letteratura, e ha fatto sì che Canobbio producesse un volume corposo, meditato, in cui – oltre alla vita di famiglia – molto altro concorre alla realizzazione di un affresco complessivo in cui Storia, vicende personali e fotografie, riflessioni, divagazioni, puntualizzazioni trovano agio.

A partire dal rinvenimento dei diari paterni Canobbio ricostruisce una vita e la amplia nel ventaglio del possibile, ma anche dell’impossibile: “Dicono che non va bene; bisogna lasciare spazio al lettore, che si addentri da solo tra i rilievi e le valli del discorso. Tutto vero, ma è più forte di me. L’universo non significa mai abbastanza, l’eccesso di pensieri deve trovar posto nei risvolti delle cose. Non esiste malattia più pericolosa dell’indicibile e in mancanza di altre cure resta solo il pensiero magico”.

Viene quindi inevitabile domandarsi che rapporto intercorra tra realtà, ricostruzione della realtà, biografismo, non-fiction (intesa anche come il semplice seguire il filo dei pensieri) compressi nella non meglio definita scatola del “romanzo”.

Dei genitori si legge: “Si sposarono nel 1964. Fecero l’amore. Nove mesi dopo, nel maggio 1947, nacque una bambina. Non fecero più l’amore per dodici anni. Nel 1958 fecero l’amore per la seconda volta e nove mesi dopo, nel febbraio 1959, nacque un’altra bambina. Non fecero più l’amore per tre anni. Nel maggio 1961, nell’occasione del centenario dell’Unità d’Italia, fecero l’amore per la terza e ultima volta. Nove mesi dopo, nel gennaio 1962, nacque un bambino”. Questi i pensieri di Canobbio bambino: quanti modi ci sono di rendicontare una vita?

Rintracciare nella città, che è una Torino protagonista, gli interventi che portano traccia del padre è di esiziale importanza per il figlio, la cui vita è stata segnata (come quella della madre) dal male di vivere del genitore. Otto anni gli ci sono voluti per trasformare i sentimenti in pagine. “Cosa avrebbe dovuto dire: “Mi spiace di essere stato un padre depresso?” […] Cosa avrei dovuto dirgli io: “Avrei voluto reagire diversamente alla tua malattia?””.

La ricostruzione avviene senza se. “Raccontai di essere cresciuto in una famiglia in cui parlare di sé era visto come una debolezza. L’unico che aveva una speciale deroga era mio padre. […] Potevo coniugare i miei genitori, nel racconto, e renderli felici. Potevo mostrarmi ed essere impudico. Potevo nascondermi e inventare maschere sempre nuove. La letteratura era un modo per restare fedele alle mie due eredità”.

Infiniti sono i modi possibili di raccontare, e questa è la strada scelta da Andrea Canobbio. Questa la sua traversata.

Bisogna lasciare spazio al lettore, che si addentri da solo tra i rilievi e le valli del discorso Andrea Canobbio

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