SOCIETÀ

L'editoriale. Quando con un uomo muore una cultura

Sono nel Dipartimento di Scienze del Farmaco dell'Università di Padova, dove si trova un'altra delle nostre collezioni storiche. Questa contiene strumenti di analisi dei farmaci, delle composizioni, degli alimenti: un densitometro, un saccarimetro e così via…

Da qui parto, perché noi sappiamo che molti principi attivi che sono stati poi alla base della realizzazione di farmaci di grandissima importanza per la nostra salute, vengono trovati nelle piante, e molto spesso i popoli nativi li conoscevano già, ovviamente in modo non scientifico ma ne avevano una conoscenza intuitiva. 

Parto da qui perché voglio proprio raccontarvi oggi una storia di uno di questi uomini, una storia che mi ha colpito molto. Una storia triste che è accaduta quest'estate, alla metà di agosto. È la storia di un uomo che viveva in ripari fatti di capanne di paglia, si spostava periodicamente da una zona all'altra della foresta, che nel suo caso è la foresta di Tanaru, in Amazzonia. Tutt'attorno alle sue capanne piantava mais, manioca, papaya e banani. Raccoglieva i frutti, lavorava magistralmente il legno, scavava ingegnose buche al fondo delle quali metteva dei paletti appuntiti che traffiggevano la malcapitata preda, l'animale che ci finiva dentro. 

Per questo, volgarmente, i giornalisti e gli altri civilizzati nei dintorni lo chiamavano l'uomo delle buche. Lui invece avrà avuto un altro nome che nessuno saprà mai. Quell'uomo era una parte integrante del suo ecosistema, come lo erano sempre stati gli antenati amerindi, da almeno venti millenni a questa parte. E le buche gli saranno forse servite anche per nascondersi da altre bestie, forse le bestie peggiori, che sono stati i suoi simili, Homo sapiens era un uomo solitario, giustamente terrorizzato, sempre in fuga.

Il 23 agosto di quest'anno è stato trovato sulla sua amaca di fronte alla capanna, il corpo, sui 60 anni, senza segni apparenti di violenza. Addormentato per sempre. Amaramente tocca dire che la sua morte è stata fortunata. È stato un privilegiato rispetto al tipo di morte che hanno avuto tutti i suoi compagni perché sono stati sterminati uno ad uno dagli anni '70 del secolo scorso. Tutti, tutti i componenti della sua famiglia, i genitori, la compagna e i suoi figli, tutti i membri della sua tribù, i suoi parenti, gli amici sono stati braccati nella foresta uno ad uno dagli allevatori illegali della zona e massacrati. Si sa che chi deve pascolare, scavare miniere, tracciare strade da quelle parti, ha tutte le connivenze e tutti gli appoggi possibili ed è autorizzato a non lasciare prigionieri in nome dell'avidità. Gli ultimi indigeni di quella zona, lui compreso, si erano barricati in un anfratto della foresta, rifiutando ovviamente qualsiasi contatto con il resto dell'umanità indipendentemente da quali intenzioni avesse nel venirli a trovare. Ma le incursioni sono andate avanti e alla metà degli anni ‘90 i nativi della foresta di Tanaru erano stati tutti uccisi. Tranne uno, tranne lui. Quindi quest'uomo se ne stava da solo, letteralmente, da 26 anni. Per questo, altrettanto volgarmente, i giornalisti hanno chiamato l'uomo più solo al mondo, che fa un bel titolo per una notizia esotica, di quelle che stanno sui giornali un giorno, poi ce ne dimentichiamo tutti. 

Ma la realtà non era affatto solo perché lui aveva attorno a sé tutta la biodiversità lussureggiante della foresta che sapeva ascoltare e che conosceva molto meglio di noi, compresi i principi attivi. I funzionari dell'ente brasiliano che tenta di proteggere le tribù native, hanno cercato di entrare in contatto con lui dal 1996 in poi, ma lui ha fatto capire che voleva essere lasciato da solo e in pace. Come dargli torto? 

Potete andare anche voi su Google Map e cercare il territorio del Rio Tanaru in Amazzonia, nella parte orientale dello stato di Rondonia. Lì potete vedere il suo minuscolo fazzoletto di foresta che è intatta ma non è vergine, nel senso che è una foresta frutto di una lunga coevoluzione e manutenzione proprio dei popoli nativi nei confronti dell'ambiente. Quel piccolo fazzoletto è circondato da distese enormi deforestate e destinate al pascolo. E poi tutt'attorno vedete altri fazzoletti di foresta frammentati qua e là e spesso sconnessi l'uno dall'altro, assediati dalle strade, dalle coltivazioni, dai pascoli. Missione compiuta. 

E noi finanziamo ogni giorno con i nostri consumi quello scempio, comprando i prodotti che ne derivano.

Ora, concludendo, i cinici pensano che queste storie siano romantiche, nostalgiche. In realtà i popoli nativi, che ho incontrato molte volte, amano il progresso, solo che non è il nostro tipo di progresso, che è predatorio, un progresso scorsoio, come lo chiamava Andrea Zanzotto. Loro sono moderni a modo loro. Hanno pregi e difetti, come tutti i gruppi umani. Solo che difendono territori che contengono il maggior numero di piante e animali e quindi difendono il futuro non soltanto loro, ma anche il nostro. L'unica realtà di questa storia è la sua insopportabile ingiustizia, verrebbe da dire una disumana ingiustizia, ma purtroppo sappiamo che è fin troppo umana. 

Quelle terre sono sempre state loro, fin dall'origine dei tempi e in teoria la Costituzione brasiliana tutela i loro diritti, ma è totalmente disattesa, soprattutto quando il presidente poi è il primo complice delle depredazioni. Ci sono altre 240 e più tribù indigene che sopravvivono in Amazzonia: taglialegna, minatori, allevatori, agricoltori. Ma il genocidio è soltanto anche per loro questione di tempo. Genocidio è una parola grossa che va usata con molta cautela. Però, sono andato sul dizionario, vuol dire distruzione sistematica e intenzionale di un popolo e della sua cultura. E di questo esattamente si tratta. Quindi la morte dell'uomo più solo del mondo non è una curiosità tropicale, estiva, è letteralmente il completamento di un genocidio. Aggiungo solo un'ultima cosa. Se avesse resistito ancora un po, chissà, l'uomo più solo del mondo sarebbe diventato un'attrazione turistica per miliardari disposti a fare costosissimi sorvoli in elicottero per avvistarlo. Ma non dimentichiamoci che l'estinzione di una specie biologica, tanto quanto di una cultura, è irreversibile. Spentosi lui, non sapremo più niente del suo nome, della sua lingua, di tutte le sue esperienze artigianali che aveva sviluppato sui materiali della foresta. Abbiamo perso per sempre le conoscenze sulle piante, sui loro principi attivi, la sua padronanza naturalistica su specie biologiche che noi ancora non abbiamo nemmeno classificato. Insomma, un pezzo di diversità, che il motore dell'evoluzione, se ne è andato per sempre. Quest'inverno noi scenderemo in piazza, scommetto, per un grado in meno nei termosifoni. E intanto non ci accorgiamo che diventiamo sempre più poveri.

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