SCIENZA E RICERCA

Einstein e la “lettera su Dio”

La cifra con cui è stata aggiudicata all’asta da Christie's a New York non è davvero banale: 2,89 milioni di dollari. Ma la lettera è stata scritta e firmata da un mito che ha passato indenne un secolo intero. Almeno da quando, nel 1919, con la conferma empirica da parte di Sir Arthur Eddington della validità della teoria della relatività generale, lui divenne, per dirla con Abraham Pais, «l’improvvisamente famoso dottor Einstein».

Ci riferiamo alla cosiddetta “lettera su Dio” che nel 1954 il fisico Albert Einstein scrisse, in tedesco, al filosofo Eric Gutkind. L’alto prezzo con la quale è stata venduta non è dovuta al contenuto, bensì all’autore. Albert Einstein, come dicevamo, è un mito assoluto. Quando, nell’anno 2000, la rivista Time chiese ai suoi esperti di eleggere il “personaggio del secolo” non ci furono dubbi: il personaggio che più ha caratterizzato il Novecento è stato Albert Einstein. E quando, in quel medesimo anno, la rivista Physics World chiese a duecento fisici teorici chi fosse stato il più grande collega di tutti i tempi, quella inedita giuria non ebbe dubbi: Albert Einstein.

Dunque non era imprevedibile che una lettera autografa del personaggio più rappresentativo del XX secolo e del fisico più grande di ogni tempo fosse venduta a caro prezzo. 

Forse merita meno il contenuto, considerato da Christie’s: «La più articolata espressione dei suoi [di Einstein] punti di vista in materia di religione e filosofia». In realtà il fisico tedesco ha attraversato diverse fasi nei suoi rapporti con dio e la religione.

È nato, infatti, in una famiglia di origini ebraiche: ma né il padre né la madre frequentavano la sinagoga. Non erano praticanti. E hanno educato il figlio in maniera molto laica. Non hanno avuto difficoltà neppure a iscriverlo alla scuola cattolica. Eppure il ragazzo ha attraversato un breve ma intenso e appassionato periodo mistico, in cui si è avvicinato da solo alla religione. 

In realtà c’è sempre in Einstein una tensione spirituale che ha qualcosa a che fare proprio con la passione. E il suo rapporto con dio (un dio con la d minuscola) spiega meglio di ogni altro cosa, forse, ciò che intendiamo. Dopo quel breve periodo mistico, Albert Einstein scopre l’ateismo. Ma non rinuncia affatto alla spiritualità. Non ignora, scrive «l’impronta sublime e l’ordine mirabile che si rivelano nella natura e nel mondo del pensiero». In qualche modo non rinuncia neppure all’idea di dio. Che non è, e non può essere, sostiene quello della Bibbia. Quella di Einstein è una religiosità scomoda. Razionale. Cosmica. Una religiosità, scrive, che «non conosce dogmi né idei concepiti a immagine dell’uomo. Non vi può essere alcuna Chiesa che fondi su di essa la propria dottrina. È perciò tra gli eretici di tutti i tempi che noi troviamo uomini penetrati di questa superiore religiosità». 

Questa posizione è confermata nella lettera del 1954 a Eric Gutkind, quando scrive: «La parola Dio per me non è altro che espressione e prodotto della debolezza umana, la Bibbia una collezione di leggende giuste, ma ancora primitive, che ciò nondimeno sono abbastanza puerili».

Ciò non significa che non creda in un dio (ripetiamo con la d minuscola). E questa sia fede – o meglio, questo suo ragionamento logico – ben lo esprime in risposta a un rabbino che gli chiede se, infine, crede o no in Dio (con la D maiuscola): «Credo nel dio di Spinoza, che si rivela nell’armonia di tutte le cose, non in un Dio che si interessa del destino e delle azioni degli uomini». Un dio che va oltre il «puramente personale» cui quasi tutti gli uomini sono legati. 

Per inciso: la scienza ha proprio quell’intrinseca caratteristica che va oltre il “puramente personale” e tende all’universale cui ambisce Albert fin da ragazzo. Fin da quando esce dalla sua fase mistica. E così il giovane Einstein si ritrova ben presto catturato completamente dalla dimensione scientifica. La cultura scientifica lo aiuta ad affinare e a rafforzare la sua critica all’autoritarismo. «Attraverso la lettura di libri di scienza popolare – ricorderà Einstein – mi ero convinto ben presto che molte delle storie che raccontava la Bibbia non potevano essere vere. La conseguenza fu che divenni un accesissimo sostenitore del libero pensiero accomunando alla mia nuova fede l’impressione che i giovani fossero coscientemente ingannati dallo Stato con insegnamenti bugiardi; e fu un’impressione sconvolgente». 

D’altra parte, come nota Abraham Pais, il suo spirito è così libero che qualsiasi autorità che non sia la ragione gli sembra irrimediabilmente ridicola. Deve essere quel senso di ridicolo che vede promanare dal dogma che, per tutta la vita, spinge Albert Einstein a usare l’arma dell’ironia contro ogni forma di autoritarismo.

La sua critica riguarda anche l’ebraismo, sebbene egli si batta – dopo essere divenuto l’improvvisamente famoso dottor Einstein – per realizzare un’università a Gerusalemme. Ancora una volta su questo argomento è chiarissimo: all’inizio del 1923, tornando dal Giappone, il fisico ormai celeberrimo si ferma per dodici giorni in Palestina, ospite nella sontuosa residenza dell’alto commissario britannico, Sir Herbert Samuel. Einstein visita Lod, Haifa e, appunto, Gerusalemme. L’8 febbraio diventa il primo cittadino onorario di Tel Aviv. Il suo sentimento identitario si rafforza. Ma non attenua lo spirito critico verso le manifestazioni esteriori di una religione formale in cui non crede. «Ottusi compagni di tribù – annota sul suo diario, ricordando quanto ha visto a Gerusalemme – pregano, con la faccia rivolta al muro, dondolando il corpo avanti e indietro. Uno spettacolo miserando di uomini con un passato ma senza un futuro».

Sembra una posizione di radicale condanna dei riti religiosi. E, in effetti, lo è. Ma, in ogni caso, non è un’avversione per la religione in quanto tale. Anzi, Einstein pensa che la fede praticata possa assolvere anche a una funzione sociale importante. 

Dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki con ordigni atomici, Einstein si pone alla testa di un movimento di scienziati per il disarmo nucleare. E individua nell’opinione pubblica americana l’alleato strategico con cui portare avanti la battaglia pacifista. Ma le folle non rispondono. E questo comportamento poco attivo della forza cui ha offerto un’alleanza lo delude non poco. I cittadini non si svegliano. Così sostiene: «Il pubblico, che pure era stato ben informato sull’orrenda natura di una guerra atomica, non ha fatto nulla al riguardo e in larghissima misura ha respinto quegli avvenimenti dalla propria coscienza»

Si convince, così, che la pura ragione non è in grado di far muovere le masse. Forse c’è bisogno anche di altro. «Gli scienziati atomici, io credo, si sono convinti di essere incapaci, con le sole armi della logica, di svegliare il popolo americano alle verità dell’era atomica. A quelle armi occorrerebbe aggiungere quelle profonde e potenti emozioni che sono un ingrediente fondamentale della religione. È da sperare che non soltanto le chiese, ma le scuole, le università e i principali organi d’opinione assolveranno bene le loro immense responsabilità».

Ecco dunque che le religioni e le chiese possono diventare alleati preziosi nella battaglia per impedire la catastrofe nucleare, proprio perché sanno suscitare grandi e forti e radicate emozioni. 

In definitiva, quando nel 1954 scrive la sua lettera a Eric Gutkind non fa altro che ripetere concetti e posizioni che gli sono proprie da tempo. Non è un credente. Ma ha una spiritualità profonda: crede nel dio di Spinoza. Nell’armonia cosmica. Ritiene forme di spiritualità rozze e primitive i riti delle varie religioni che si riferiscono a un Dio (con la d maiuscola) che si interessa passo passo delle vicende umane. E tuttavia, con grande pragmatismo e una visione moderna della comunicazione della scienza, sa che anche le istituzioni religiose possono assolvere a un ruolo importante, con la loro capacità di mobilitare le coscienze facendo leva sulle emozioni e non solo sulla ragione, nella lunga battaglia per la pace e per il rispetto di tutti per tutti.

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