CULTURA

Erich Rohmer, l'innovatore del cinema della modernità

Cento anni fa nasceva Erich Rohmer; non se ne è ricordato quasi nessuno. Eppure è stato uno dei maggiori innovatori di quello che si è soliti definire il cinema ”della modernità”. Faceva parte di quel manipolo di cinefili francesi che tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, prima come critici e poi come registi hanno dato l’avvio a quelle “ondate” che hanno rimesso in discussione il modo di giudicare e poi fare film. In quel manipolo c’erano, tra agli altri, Truffaut, Chabrol, Rivette, Godard, Rohmer, appunto (che si chiamava Maurice Schérer, e che così firmò i primi articoli). Era il meno giovane, ma aderì subito al progetto. Avevano molte cose in comune, quella che loro definivano una “idea di cinema”, contraria non solo-ovviamente- al cinema di consumo diffuso ma anche a una “qualità” ormai preconfezionata, regolata, legata al divismo, esente da rischi.

C’erano poi anche delle differenze tra loro, che si manifestarono soprattutto in seguito, quando passarono dalla critica alla regia. Conviene allora chiedersi quali siano state alcune linee di tendenza delle proposte rohmeriane. La prima riguarda la conciliabilità proprio tra la classicità e la modernità; la convinzione era che si poteva raccontare una storia seguendo un andamento narrativo che accettava i precedenti mettendo dentro  temi non collaudati, e soprattutto forme desuete, tra regole e libertà della macchina da presa: tempi allentati, attenzione ai comportamenti, ai gesti, con una grande importanza data dagli spazi (la città o la Provenza, non importa), Occorreva lasciare aperta la porta al’improvvisazione, muovendosi quindi tra organizzazione e caso (o finto tale, non importa). Torna in vigore la formula relativa al rapporto tra tradizione e innovazione. In questo Rohmer era vicino  a Truffaut, e lontano da Godard.

Per fare questo il nostro autore era molto attento - come gli altri d’altronde - a quello scambio tra i  linguaggi che è la vera caratteristica della modernità, con un occhio particolarmente attento alla letteratura (anche se  solo in tre film, La marchesa von…, da Kleist è il maggiore, si è rifatto a una fonte scritta, su più di una ventina di opere). Lo faceva peraltro nella convinzione che quello scambio è reciproco, il cinema deve tanto alla letteratura, ma non manca certo il percorso reciproco. Questo vale anche per la pittura, e –può sembrare azzardato- per la musica (relativamente alla quale Rohmer aveva una particolare competenza, come testimonia il suo saggio Da Mozart a Beethoven, edito anche in Italia).

Su questo quadro di fondo si delinea una forte singolarità di Rohmer che - caso direi unico - ha dimostrato la conciliabilità tra serie e originalità. Buona parte dei suoi film sono organizzati in “cicli”: i “Racconti morali” (sei, dalla Fornaia di Monceau L’amore ,il pomeriggio), “Commedie e proverrbi” (sette, da La moglie dell’aviatore L’amico della mia amica),“Racconti delle quattro stagioni” ( quattro, da Racconto di primavera Racconto d’autunno). Ogni film è autonomo e contemporaneamente rimanda agli altri. Come dire: persistenza e variazioni, come in musica (a proposito di circolazione dei linguaggi…).

Geometrie di racconti e rimandi; sarebbe già un intreccio formale più che interessante. Ma c’è anche un aspetto saliente che riguarda i significati; i racconti morali sono anche “racconti filosofici”, ancora secondo una tradizione letteraria; emergono temi forti, come il rapporto tra la nostra volontà e il caso, tra progetto individuale e destino. Temi “antichi”, si direbbe, rappresentati con immagini e parole: il cinema può arrivare anche a quella che potremmo definire “messa in scena della parola”. Come tanto teatro. 

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