SOCIETÀ

Il fenomeno urbano e la complessità

Questo è un libro che ci voleva. Per i due motivi che Gianfranco Dioguardi indica già nella prefazione: il primo è che viviamo nel “secolo delle città” e l’opera è un’autentica enciclopedia – ricca, colta – sul fenomeno urbano. Il secondo motivo è che questa è un’enciclopedia sulla complessità del fenomeno urbano.

Stiamo parlando del libro che Sergio Bertuglia e Franco Vaio hanno pubblicato con Bollati Boringhieri: Il fenomeno urbano e la complessità (800 pagine, euro 38,00).

Non è semplice da leggere, non solo per l’estensione ma anche e soprattutto per l’intreccio dei riferimenti culturali. Gli autori sono e dimostrano di essere dentro ogni dibattito sulla città. La loro è una straordinaria opera interdisciplinare.

Mettiamo le mani avanti: è difficile recensire in maniera esaustiva questo libro. Non solo e non tanto perché la recensione avrebbe bisogno di uno spazio almeno pari a quello occupato da Sergio Bertuglia e Franco Vaio, ma anche e soprattutto perché occorrerebbe una competenza non solo architettonica e urbanistica, ma anche storica, filosofica, antropologica, sociologica, psicologica, economica, politica. Tutte dimensioni in cui Bertuglia e Vaio si muovono con una competenza e una capacità critica fuori dall’ordinario, appunto. Queste competenze il vostro recensore non le ha, neppure alla lontana.

Tuttavia è possibile una lettura limitata di questo libro, fondandola su alcune parole chiave e poi approfondendo quella che più interseca le modeste competenze del recensore: la città come luogo elettivo per la creazione di una società democratica della conoscenza.

Parola chiave n. 1: complessità

1. La città come sistema complesso.

La parola complessità è nel titolo di questo libro perché è proprio questo che i due autori intendono mettere in evidenza. La città è e deve essere pensata come un sistema complesso.

Ora un sistema complesso è costituito, in prima istanza, da un numero grande di elementi che hanno tra loro un numero ancora più grande di relazioni. La città è per l’appunto un sistema costituito da un numero grande di persone e di cose (case, uffici, industrie, sistema dei trasporti) che hanno tra loro un numero enorme di relazioni.

La città è un sistema complesso.

La città è un sistema complesso

La campagna – ci riferiamo soprattutto alla campagna del passato – non è un sistema complesso. O lo è di meno. Il numero di persone è più rarefatto – la densità abitativa è di qualche ordine di grandezza inferiore a quello della città – e le relazioni tra queste persone sono decisamente meno intrecciate.

Già questo spiega, in buona parte, perché la città storicamente si è rivelata una culla di creatività e la campagna molto meno. La creatività – lo sostengono in qualche modo i due autori – è il frutto di una serie di interazioni contaminanti.

2. La città come sistema complesso evolutivo.

Ma Bertuglia e Vaio mettono molto bene in evidenza che la città è in sistema complesso evolutivo. La città cambia nel tempo. Incessantemente e inevitabilmente. Non esistono città congelate. Mario Ageno, biofisico di gran classe, diceva che non c’è possibilità alcuna di spiegare i fenomeni biologici al di fuori della storia. La città è intrisa di storia. Se evoluzione viene dal latino evolutio, che significa srotolare il papiro, ebbene la città è un continuo srotolamento del papiro. Si tratta di una evoluzione adattativa: l’evoluzione del fenomeno urbano opera una selezione che potremmo definire “naturale” delle città che meglio si adattano al cambiamento delle condizioni al contorno, ma è soprattutto un’evoluzione culturale, accelerata e dunque lamarckiana: perché capace di trasferire immediatamente da una generazione all’altra i caratteri culturali acquisiti.

Se Milano o Roma o Napoli o Padova acquisiscono oggi un determinato carattere – non solo culturale, ma persino infrastrutturale – lo trasmettono alle loro figlie che sono la Milano, la Roma, la Napoli o la Padova di domani e di dopodomani, ma anche le realtà, urbane e non, che le sono vicine, fisicamente o virtualmente. Il “carattere veneziano” è ancora presente in moltissime realtà, urbane e non, del Mediterraneo orientale così come del territorio continentale chiamato, non a caso, delle “tre venezie”. A conferma che i sistemi complessi evolutivi sono insieme segnati da elementi di cambiamento ma anche da costanti. Senza questa costanti il sistema complesso sarebbe altamente instabile; senza il cambiamento il sistema sarebbe altamente vulnerabile: incapace di adattarsi al mutare dell’ambiente in cui si trova.

3. La città come sistema autopoietico.

La città è un sistema complesso non solo evolutivo, ma anche autopoietico. Bertuglia e Vaio ricordano la teoria dell’autopoiesi proposta nel 1980 da Humberto Maturana e affinata in seguito con il contributo di Francisco Varela. La poiesi è una parola di origine greca che significa creazione. L’autopoiesi altro non è che una creazione continua che si sostiene e si riproduce grazie al gioco delle proprie forze interne. La città è dunque un sistema complesso che cambia e che trova anche e soprattutto al suo interno le forze per cambiare e restare stabile.

Occorre chiedersi se oggi non bisogna estendere questa definizione alla “città globale”, al fenomeno urbano a scala planetaria, alle reti delle città del pianeta Terra. Il globo abitato dall’uomo e – stavamo per scrivere ridotto, ma è meglio dire trasformato – dall’uomo in un fenomeno urbano che tende a essere sempre più unitario. Il “villaggio globale” innervato dalla rete internet a partire dagli anni ’80 del secolo scorso si sta trasformando in una “città globale”? È una domanda, più che un’affermazione. Nel libro è possibile trovare le indicazioni per giungere a una risposta.

Parola chiave n. 2: Interdisciplinarità.

La semplice provocazione di cui sopra, per essere risolta, avrebbe bisogno di uno studio informato di interdisciplinarità: occorrono architetti e urbanisti, ma anche storici e filosofi, antropologi e sociologi, psicologi ed economisti. E politici. E poi ancora climatologi, etologi, epidemiologi e quant’altro.

Ecco, un altro carattere espresso in maniera tanto marcata quanto spontanea nel libro di Sergio Bertuglia e Franco Vaio è l’interdisciplinarità. Se vogliamo tentare di comprendere e, quindi, di governare il fenomeno urbano per cercare di indirizzarlo verso un futuro desiderabile abbiamo bisogno non solo di equipe di studiosi con un diverso background culturale, ma noi tutti – laici della e nella città – di un approccio interdisciplinare. Proprio perché tutte le dimensioni attingibili all’uomo – la sua memoria storica e la sua visione filosofica, il suo lavoro, le sue relazioni private e pubbliche, la casa in cui abita, l’ufficio o la fabbrica in cui lavora – trovano non il solo ma certo il massimo punto di coagula in città. Anche nella nuova “città globale” che si viene creando.

Tutti noi siamo chiamati a una visione sempre più interdisciplinare della nostra vita, mentre in un recente passato – penso alla città nata con la prima e anche con la seconda industrializzazione – potevamo permetterci una visione della vita a una o a pochissime dimensioni.

Facciamo l’esempio del vostro modesto recensore. È venuto in città – a Roma – e ha lavorato per qualche anno come giornalista specializzato: scriveva di scienza per un quotidiano. Punto. Oggi scrive di scienza sui media più disparati, con tempi i più diversi, dislocati in città le più diverse e partecipa a incontri pubblici che non sono (o, almeno, non erano considerati) i luoghi naturali del giornalista scientifico da quotidiano. Se al tempo in cui Maturana e Varela andavano proponendo le loro idee sull’autopoiesi l’unico spostamento fisico del vostro recensore era dalla casa all’ufficio e il canale unico di comunicazione la pagina scritta di un quotidiano, oggi il vostro recensore vive – come la quasi totalità di chi fa comunicazione in maniera professionale – sui treni spostandosi pressoché quotidianamente da un luogo all’altro del paese e comunicando potenzialmente con tutti attraverso sia i media tradizionali sia i nuovi media. Una rivoluzione, quella che ha coinvolto e partorito la figura del comunicatore totale (giornalista è ormai un termine riduttivo) che consente di toccare con mano il concetto di “città globale”.

La interdisciplinarità è una grande sfida. Non ancora risolta. Molti, anche uomini di scienza (siano esse naturali o umane) pensano ancora in maniera monodisciplinare. Alcuni, in numero crescente, iniziano ad assumere un approccio multidisciplinare. Stanno nascendo persino comunità scientifiche con un carattere marcato di multidisciplinarità. Ma la interdisciplinarità è un’altra cosa: pretende un pensiero complesso, capace di costruire ponti tra le diverse isole disciplinari proprio come fanno Bertuglia e Vaio per affrontare il tema del fenomeno urbano.

Il messaggio è forte. E non riguarda solo i tecnici: tutti debbono, anche i laici, pensare e vivere la città indossando gli occhiali della interdisciplinarità. Tutti debbono, ciascuno nel suo ambito, tagliare i lacci dello specialismo che ha prodotto in passato e produce ancora oggi nuova conoscenza, ma che portato all’estremo porta a conoscere “quasi tutto di quasi niente”.

Abbiamo bisogno di strutture che connettono, per dirla con Gregory Bateson.

Oggi per vivere bene in città dobbiamo cercare di comprendere l’intera città. Non basta muoversi tra casa e ufficio.

Bisogna considerare la città come un ecosistema urbano, in termini biologici e culturali. È sul piano culturale, infatti, che la città si propone come un hot spot di diversità. E, dunque, di creatività,

Parola chiave n. 3: Creatività

La città – la cosa emerge in maniera forte e chiara nel libro di Bertuglia e Vaio – è “il” luogo della creatività. Molti sociologi della conoscenza sostengono che esistono “città creative” e che queste città creative sono intrinsecamente interdisciplinari. Le novità nelle città creative nasce dall’incontro tra scienziati naturali, umanisti, artisti, persino bohémien. Un crogiolo dove si sciolgono i muri tra le visioni disciplinari e le idee circolano libere.

Meglio fermarsi a una dimensione in cui il vostro recensore pensa di potersi muovere con minore rozzezza: la creatività scientifica.

La scienza nasce in città.

Non nasce nella savana attraversata dai primi Homo sapiens e neppure nelle campagne dei primi contadini che hanno realizzato la prima grande transizione economica dalla caccia e dalla raccolta alla coltivazione e all’allevamento.

La scienza viene molto dopo e nasce e si sviluppa esclusivamente nelle città. Nella città dove, per ragioni economiche, c’è una forte domanda di innovazione. Facciamo tre esempi. La scienza ellenistica – che secondo alcuni è la prima scienza compiuta in termini epistemologici, la prima scienza moderna – nasce ad Alessandria d’Egitto. Grazie, appunto, a una forte domanda d’innovazione da parte del sistema produttivo fondato sugli scambi a largo range e alla contaminazione tra più culture: quella greca classica, qualla egiziana, quelle del Medio Oriente. Da Euclide a Ipazia, Alessandria è stata per settecento anni la capitale mondiale della scienza.

È solo quando – è solo mentre – Baghdad diventa una grande metropoli e capitale culturale del mondo islamico, che quella città – quella metropoli – prende il testimone di Alessandria e diventa a sua volta capitale mondiale della scienza. Diventa città creativa. Perché la scienza islamica crea nuova conoscenza.

Qui bisognerebbe aprire una parantesi e chiederci: come mai Roma – che pure in età imperiale è una metropoli, tra le più grandi al mondo – non ha creato neppure un po’ di scienza (nell’ambito delle scienze naturale, perché in quelle giuridiche o in letteratura ha creato moltissimo)?

La risposta è che per essere creativa dal punto di vista delle scienze naturali e della matematica in città – persino in una metropoli – occorre avere insieme a tanti altri ingredienti una forte domanda di innovazione. Per varie ragioni, a Roma e nel suo impero che potremmo definire militar-rurale questa domanda non c’è.

C’è invece una forte domanda d’innovazione nella piccola Firenze rinascimentale, quando la scienza ritorna in Europa – dopo il primo tentativo abortito del XIII e inizio XIV secolo – passando attraverso le botteghe degli artisti che scoprono la potenza della conoscenza scientifica. Brunelleschi, Masaccio, Donatello aprono le porte alla scienza in Europa perché rispondono come artisti (Brunelleschi come straordinario architetto) alla domanda d’innovazione.

La città rinascimentale, sotto questa spinta, diventa essa stessa un’opera d’arte. O, come la chiamano Bertuglia e Vaio, una città-opera. Ma c’è di più, ci dicono i due autori: la città rinascimentale opera d’arte è un sistema complesso autopoietico, perché frutto dell’«autorganizzazione del sistema sociale costituito dai membri di una cittadinanza attiva e partecipe». Questo è un passaggio illuminante, perché ci proietta di rettamente sull’oggi e sul futuro desiderabile. Oggi più che mai per essere creativa e democratica una città locale, estesa o globale che sia, deve essere costituita da quella che Bertuglia e Vaio chiamano «una cittadinanza attiva e partecipe».

È questa la nuova frontiera.

Parola chiave n. 5: La città nella costruzione di una società democratica della conoscenza.

Scrivono Bertuglia e Vaio: «Al centro della vita pubblica vi è, in questo modello [si riferiscono al modello di società fondato sul concetto di cittadinanza e di appartenenza] la partecipazione attiva al processo di elaborazione delle decisioni da parte di un pubblico attivo».

Poi citano John Dewey e la sua idea di esistenza di un pubblico frammentato, costituito da una molteplicità di pubblici distinti e sovrapposti. E richiamano la necessità di avere una “consapevolezza” sociale delle possibili conseguenze di ciascun pubblico e di ciascuna azione di noi appartenenti a uno o più pubblici.

E ancora, citano i due autori, Hannah Arendt che enfatizza il “dialogo” come collante per la formazione del pubblico nello “spazio della presenza.”

Infine Bertuglia e Vaio introducono il concetto di “bene comune”, che è più ampio di quello di bene pubblico.

Ci si riferisce anche alla “tragedia dei commons” e alla difficoltà di salvaguardare l’integrità dei beni comuni. Ma anche della possibilità di trasformare la “tragedia” in “commedia dei beni comuni”.

L’intera logica argomentativa di Bertuglia e Vaio si fonda su un concetto democratico: la partecipazione e la costruzione “dal basso” della struttura urbana. E questo rimanda al carattere autopoietico della città.

In questa costruzione dal basso della città è possibile inserire un elemento che coinvolge chi si occupa di comunicazione della scienza: ovvero la costruzione della cittadinanza scientifica quale elemento essenziale di una società democratica della conoscenza.

Argomentando per slogan: viviamo nell’era della conoscenza.

Questa era è segnata da una profonda contraddizione: mai è stata prodotta tanta ricchezza al mondo, mai è stata generata tanta disuguaglianza.

La contraddizione è profonda per la natura stessa della conoscenza, un bene davvero particolare, perché che non si consuma con l’uso, bensì aumenta. Più la usiamo tutti, più la conoscenza aumenta. Inoltre la conoscenza è nel suo intimo un “bene comune”, sia perché è frutto di interazione tra le persone, sia perché appartiene (deve appartenere) a tutti. Anche le Nazioni Unite riconoscono il diritto universale alla conoscenza come uno dei diritti fondamentali dell’uomo.

L’era della conoscenza ha due gambe, come diceva il sociologo Luciano Gallino, che fanno entrambe riferimento alla scienza: la produzione di nuova conoscenza e l’uso della nuova conoscenza prodotta che si reifica in tecnologia. La scienza è dunque il motore della società della conoscenza.

Ne discende che la domanda di partecipazione di cui parlano Bertuglia e Vaio riguarda anche le decisioni che implicano la scienza. È una “domanda di nuovi diritti di cittadinanza”.

I nuovi diritti di cittadinanza scientifica sono null’altro che il bisogno ineludibile dei cittadini (degli abitanti la polis) di compartecipare a ogni scelta che li riguarda, anche quelle con marcato carattere scientifico, in ogni ambito: culturale, sociale, economico, ecologico, politico.

Tutto questo avviene (può avvenire) solo nell’ambito dell’incontro tra la “città della scienza” e la città in senso stretto (il luogo dove vivono i cittadini). Entrambe queste città stanno ridefinendo il concetto di spazio a favore di quello di rete.

Non è un caso se, ormai, gli scienziati vivono in città virtuali che si estendono a tutto il pianeta. Né è un caso che la loro attività è passata dallo snodarsi in una torre d’avorio alla città aperta: ovvero alle piazze, alle strade e ai vicoli della città in cui si sviluppa il dialogo con l’intera società.

La domanda di partecipazione e la domanda di dialogo con la scienza si esprime in piazze virtuali, ma anche e soprattutto reali. Prendiamo il caso dei Friday for Future, milioni di giovani scendono in strada in (si appropriano di) decine di città di tutto il mondo per rivendicare – per costruire dal basso – un futuro desiderabile fondato sulla conoscenza scientifica.

Così si formano alleanze inedite, come quelle tra gli stessi giovani, il mondo scientifico e le autorità religiose. Come Francesco, che non a caso parla da una città, la Città del Vaticano.

Ma nella comunicazione della scienza è utile riferirsi alla città anche come metafora.

In un modello di interazione e di comunicazione che è possibile definire, magari richiamandomi a Dewey, con il nome di una città: il modello Venezia. Il modello di una città sistema complesso intriso di storia. Ma anche metafora di quel dialogo di cui parla Hannah Arendt. A Venezia ci sono molti ponti che uniscono le varie isole dell’arcipelago: nessuno tra quei ponti è a senso unico. Sono tutti ponti di comunicazione aperta. Ponti di dialogo.

Potremmo continuare con il gioco delle parole chiave. Ma occorre concludere. E concludiamo dicendo che, dopo aver letto il libro di Bertuglia e Vaio, ci si arricchisce come mai intorno non solo all’idea di città, ma anche all’idea di cittadinanza.

Detta in altri termini, un fenomeno emergente di questo libro sulla complessità urbana è la città che si offre come nuova agorà. Come luogo elettivo per esercitare il bisogno di partecipazione democratica. Un’agorà autopoietica, che ricostruisce incessantemente sé stessa e costruisce “dal basso” la nuova società democratica di quel bene “necessariamente” comune che è la conoscenza.

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