SOCIETÀ

La grave crisi idrica dell'Uruguay

Una siccità feroce, e una gestione non proprio impeccabile dell’emergenza, stanno provocando da mesi una gravissima crisi idrica in Uruguay. Quasi un paradosso per la nazione che, nel 2004, fu la prima al mondo a dichiarare nella sua Costituzione che “l’acqua pulita è un diritto umano fondamentale”. Acqua che oggi esce dai rubinetti di Montevideo torbida e salata: imbevibile, stando a quanto ammette perfino la Commissione nazionale per la difesa dell’acqua e della vita (Cndav). Il motivo non è un mistero: il bacino idrico che serve l’area metropolitana attorno alla capitale uruguaiana, il Canelón Grande, è oramai a secco, svuotato da tre anni consecutivi di siccità (che sta colpendo duramente l’intero Sud America). Per evitare ulteriori carenze, e sperando invano nell’arrivo provvidenziale di qualche pioggia, i tecnici dell’Ose (Obras Sanitarias del Estado), la compagnia statale che fornisce acqua potabile su tutto il territorio nazionale, hanno gradualmente aggiunto acqua salmastra, prelevata dall’estuario del Rio de la Plata, al bacino principale del Paso Severino, che copre circa il 60% del fabbisogno nazionale. La “manovra”, oltre a rendere l’acqua salata, ha fatto impennare i livelli dei cloruri, del sodio e dei trialometani, ben oltre i limiti imposti dalla normativa nazionale. E già lo scorso maggio era stato raggiunto il livello massimo della scala fissata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ora quei valori sono addirittura raddoppiati. Le autorità sostengono che le sostanze chimiche alterano soltanto il gusto e l’odore dell’acqua, ma non rappresentano “necessariamente” un rischio per la salute della maggior parte delle persone. Dichiarazioni che hanno scatenato una prevedibile reazione di pareri contrapposti. Álvaro Mombrú, preside della facoltà di chimica dell’Universidad de la República, a Montevideo, non soltanto ne sconsiglia al momento il consumo, ma mette in guardia il governo sui prossimi passi da compiere: «Un ulteriore aumento del sodio e del cloruro avrebbe un impatto immediato sulla salute della popolazione. La situazione non si risolverà a breve: dobbiamo imparare a convivere con questa emergenza». Comunque il governo ha diramato un avviso nel quale si sconsiglia a bambini, anziani vulnerabili e donne incinte di bere acqua dal rubinetto. Ed è stata eliminata, per decreto, qualsiasi tassazione sull’acquisto di acqua in bottiglia: l’acqua potabile, sempre in bottiglia, sarà fornita gratuitamente a circa mezzo milione di abitanti, i meno abbienti. Si stima che la metà della popolazione dell’intero Uruguay (circa 3,4 milioni di abitanti) non abbia attualmente accesso all’acqua potabile.

Soltanto misure emergenziali

Per l’Uruguay è la più grave siccità degli ultimi 74 anni. Il bacino di Paso Severino, che in condizioni normali avrebbe una capacità di 67 milioni di metri cubi di acqua, a giugno era sceso a 3,5 milioni. Lo scorso 10 luglio era ulteriormente diminuito ad appena 1,9 milioni di metri cubi, segnando il record negativo nella storia del paese. E ogni giorno che passa la situazione peggiora. Il presidente uruguaiano Luis Lacalle Pou ha dichiarato già alla fine di giugno lo stato d’emergenza per l’area metropolitana di Montevideo. Ma il suo governo è finito comunque nel mirino delle critiche: prima per aver consentito l’aumento temporaneo sui limiti di sodio e di cloruro nelle acque (per il sodio da 200 a 440 mg per litro, per i cloruri da 250 mg a 720 mg, sempre per litro). Poi per l’autorizzazione, disposta dal ministero della Salute Pubblica, di quintuplicare i livelli consentiti di trialometani, una sostanza (che deriva dalla disinfezione delle acque con il cloro) probabilmente cancerogena, con elevati rischi sulla salute, soprattutto delle donne in gravidanza. Tutte le deroghe sono temporanee, ma la fine dell’emergenza non si vede. E sono in molti ad accusare l’attuale governo, di centro-destra, di non avere saputo predisporre un qualsiasi piano per affrontare in maniera strutturale, e per tempo, l’emergenza. La pioggia, d’accordo: ma se non piove? Da qui il solito rimpallo di accuse tra opposte fazioni. L’esecutivo ha replicato accusando le precedenti amministrazioni, compresa la coalizione di sinistra del Frente Amplio, che ha governato il Paese dal 2005 al 2020, di non aver saputo investire a dovere nelle infrastrutture idriche. L’ex presidente Pepe Mujica non si è sottratto alle sue responsabilità: «Ci siamo addormentati tutti», ha dichiarato pochi giorni fa. Ma lo scorso aprile lo stesso Mujica aveva già inquadrato la gravità dell’emergenza, puntando il dito contro «l’alta politica che non riesce a trovare un piano di emergenza per questi fenomeni». Spiegava Mujica con parole che sarebbe bene memorizzare: «La grande domanda è: questo sarà un problema congiunturale o stiamo affrontando un cambiamento drammatico? Perché in realtà se facciamo la media delle precipitazioni negli ultimi 3 anni vediamo che è scesa enormemente: non si tratta più di una stagione. La cosa più drammatica è che continueremo a non reagire a queste cose, come se per noi fosse difficile comprendere cosa sta accadendo. Non assimiliamo, nella nostra cultura quotidiana, che l’umanità è diventata un fenomeno geologico che ha un’influenza sugli equilibri del pianeta. Stiamo modificando drasticamente tutto e sembra che non abbiamo il coraggio intellettuale di modificare il nostro comportamento in relazione ai cambiamenti che provochiamo».

Il fattore umano dunque, oltre a quello climatico. Sono anni che ricercatori e attivisti uruguaiani denunciano, senza apprezzabili successi, l’ormai non più sostenibile impatto ambientale dell’agricoltura, della silvicoltura e degli allevamenti sulle risorse complessive del Paese (le principali esportazioni sono riso, soia, legno, carne). Al punto che soltanto una piccola parte delle riserve idriche viene destinata per il consumo umano. RAP-AL, l’organizzazione contro l’utilizzo dei pesticidi in America Latina, ha pubblicato lo scorso maggio un report che, nel valutare la cosiddetta “impronta idrica” (il volume di acqua impiegato nella produzione di beni e servizi), fa emergere con chiarezza la proporzione, e dunque la gravità della situazione: «In Uruguay, la maggior parte dell’acqua non è destinata al consumo umano né rimane nel paese. L'acqua utilizzata nella produzione di riso nel 2019 ha rappresentato quattro volte l'acqua totale purificata per il consumo umano nel paese. La quantità di acqua necessaria per la produzione di polpa di legno era dieci volte superiore all’acqua consumata dalla popolazione. Per la produzione di soia 17 volte di più e per la produzione di carne 20 volte di più. Nel 2019, le quattro attività insieme hanno consumato 18.537 milioni di metri cubi di acqua, mentre la produzione di acqua potabile è stata di 356 milioni di metri cubi».

La prevalenza dell’agrobusiness

Da qui l’accusa all’attuale governo: sta dando priorità all’acqua per le multinazionali e l’agrobusiness a spese dei propri cittadini. Una rabbia acuita pochi giorni fa quando si è diffusa la notizia di un nuovo piano per costruire, nel dipartimento di Canelones, nel sud dell’Uruguay, un enorme data center di Google, che dovrebbe sorgere su un’area di 29 ettari. L’impianto, scrive il Guardian, “avrebbe bisogno di 7,6 milioni di litri di acqua al giorno per raffreddare i suoi server”. Daniel Pena, ricercatore presso l’Universidad de la República, a Montevideo, sostiene che l’acqua arriverebbe direttamente dal sistema pubblico. Il ministero dell’Industria non ha smentito l’esistenza del progetto, ma ha confutato le cifre, sostenendo che si tratta di un progetto “di dimensioni più ridotte”. Ma appare del tutto evidente che l’Uruguay, per invertire il trend, avrebbe bisogno di un cambio di passo strutturale. Come suggerisce Raúl Viñas, meteorologo e membro del Movimiento por un Uruguay sostenible (Movus). La soluzione è in quattro mosse: riparare le reti idriche per evitare le enormi perdite, generare più riserve idriche in aree pulite (impedendo ai prodotti agrochimici e alle sostanze organiche di raggiungere i corsi d'acqua), cercare nuove fonti di acqua dolce ed educare, sia le persone sia le industrie. «Dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare all’acqua e capire che è una risorsa finita, scarsa e costosa», ha detto Viñas.

Clima, e non solo, al vertice Celac

Il problema, com’è evidente, non riguarda soltanto l’Uruguay. Il mix fatale siccità-agrobusiness colpisce molte nazioni sudamericane (Cile, Bolivia, Argentina, Brasile) e centroamericane (su tutte Honduras, Guatemala e Messico). Tutti paesi che fanno parte della CELAC, la Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi, che proprio nelle scorse ore si è riunita a Bruxelles per un vertice con l’Unione Europea (che mancava da 8 anni) per consolidare una partnership che guerre, pandemie e “negazionisti climatici al potere” (come nel caso dell’ex presidente del Brasile, Jair Bolsonaro) non sono riusciti a incrinare. Nel vertice si è parlato di giustizia climatica, di progresso economico, di coesione sociale e della fornitura di materie prime “critiche”, tra le quali il litio (accordi mirati sono stati stipulati in tal senso con Argentina e Cile). La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che ha celebrato la «rinascita" del Brasile come attore internazionale» dopo la parentesi Bolsonaro, ha annunciato un investimento pari a 45 miliardi di euro, fino al 2027, per avviare nuovi progetti a favore delle “industrie pulite” nei paesi dell’America Latina e dei Caraibi. Ma non sono mancate le tensioni e i contrasti. Sulla guerra in Ucraina anzitutto, dove le divergenze di vedute tra i vari paesi hanno impedito la stesura di una dichiarazione comune di condanna (il presidente brasiliano Lula ha rimarcato come «il conflitto in Ucraina è la conferma che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non affronta le attuali sfide alla pace e alla sicurezza»). Un vertice che ha però deluso gran parte delle associazioni ecologiste. Con il gruppo Ecologists in Action che ha stilato un bilancio fortemente negativo del summit: «Le chiamano nuove relazioni, ma in realtà si tratta della stessa vecchia cosa: estrattivismo, clima e ingiustizia sociale e violazioni dei diritti umani». Tom Kucharz, portavoce di Ecologists in Action, ha aggiunto che l’organizzazione «respinge l’agenda proposta dall’Unione Europea per il vertice con la CELAC e le sue priorità incentrate sugli accordi commerciali, il piano di investimenti pubblici in infrastrutture (il Global Gateway, nato alla fine del 2021 per contrastare la Belt and Road Initiative cinese) e risorse naturali. Perché, se attuate, potrebbero addirittura aggravare le disuguaglianze sociali, la povertà e la crisi ambientale».

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