SOCIETÀ

Guantanamo, il buco nero dei diritti umani

Guantanamo Bay è da vent’anni il buco nero dei diritti umani, dov’è vietato guardare, dove le regole non valgono mai, dove qualsiasi pratica è lecita per i carcerieri, anche la peggiore. Una prigione “offshore” installata dall’amministrazione Bush in piena emergenza antiterrorismo (a pochi mesi dall’attentato delle Twin Towers e della conseguente invasione Usa dell’Afghanistan), in un’enclave americana nell’isola di Cuba proprio per poter aggirare le leggi degli Stati Uniti. In quel “gulag dei nostri tempi” (la definizione è di Amnesty International) da vent’anni è ammesso di tutto: torture, soprusi, violenze, maltrattamenti, alimentazioni forzate e negate, trattamenti inumani e degradanti, interrogatori privi delle più elementari tutele per i detenuti. E a nulla sono valse, in questi ultimi vent’anni, le migliaia di voci, di grida di sdegno, di testimonianze che si sono levate per denunciare quanto stava accadendo in quel campo di detenzione (o di concentramento), funzionale alla “guerra globale al terrore” scatenata dagli americani. Chi arrivava lì, spesso soltanto per un semplice sospetto, senza la minima prova, doveva parlare, confessare, rivelare connessioni, fare nomi. A qualsiasi costo, comprese le più inaccettabili violenze, fisiche e psicologiche. Senza troppi occhi indiscreti a sorvegliare tempi e modi di questa inedita e spietata operazione di “intelligence”. E anche quando le prime immagini della prigione sono state diffuse (i detenuti con la divisa arancione, ammanettati, bendati, incatenati, inginocchiati), la più totale indifferenza ha accolto qualsiasi voce di protesta si sia levata per denunciare la barbarie, o per chiedere la chiusura del centro di detenzione. Come dire: gridate pure, tanto nulla cambierà.

Le menzogne di Bush e le promesse di Obama

Difatti nulla è cambiato, da quell’11 gennaio 2002, quando la prigione di Guantanamo, all’interno dell’omonima base navale Usa, fu aperta e subito stipata di “terroristi”, veri o presunti. «Il peggio del peggio», li definì l’ex vicepresidente Dick Cheney. Che aggiunse, tentando di conquistare consensi: «L’unica alternativa alla creazione di Guantanamo Bay sarebbe stata uccidere direttamente i sospetti terroristi. Noi però non agiamo in questo modo». Nel 2005 George Bush riuscì a mentire con una spudoratezza mai abbastanza deplorata nel rispondere alle accuse: «I prigionieri sono trattati bene a Guantanamo – sostenne -. C'è totale trasparenza. La Croce Rossa Internazionale può ispezionare in qualsiasi momento, in qualsiasi giorno. Queste persone vengono trattate umanamente. Ci sono pochissimi sistemi carcerari in tutto il mondo che hanno un controllo così accurato come il nostro». Ong e organizzazioni internazionali hanno più volte denunciato gli Stati Uniti per tortura e violazione del diritto internazionale e spregio delle regole sul trattamento dei prigionieri, anche di guerra (Convenzione di Ginevra). La risposta è sempre stata la stessa: il più assoluto silenzio. E la più assoluta impunità.

Così Guantanamo Bay è aperta ancora oggi, nonostante le amministrazioni a guida democratica (Obama, Biden) che si sono succedute in questi ultimi vent’anni avessero promesso il contrario (più coerente Trump che ne ha sempre difeso l’operatività, l’utilità). Dal 2002 la struttura ha “ospitato” 780 detenuti. Oggi ne sono rimasti 39: pochi nel raffronto, ma comunque 39 prigionieri, molti dei quali ancora in attesa di un processo. La giurisdizione è affidata al “Tribunale di guerra” delle commissioni militari (che dal 2002 a oggi ha prodotto soltanto 8 condanne). Dei detenuti attuali, 3 sono in attesa di sentenza, 7 sono sotto processo, appena 2 sono reclusi perché già condannati. Quattordici sono “trattenuti a tempo indefinito”: per loro nemmeno è previsto un processo. Altri 13 prigionieri sono in attesa di trasferimento nel paese di origine. Lo scorso anno un solo prigioniero è stato rimpatriato, un uomo di nazionalità marocchina che avrebbe dovuto lasciare il carcere nel 2016, ma l’amministrazione Trump ne aveva bloccato il trasferimento. Perciò quel prigioniero s’è fatto 5 anni di prigione militare in più, senza alcun motivo. Nel maggio 2021, l’amministrazione Usa ha disposto il rilascio di altri due detenuti: il pakistano Saifullah Paracha, 73 anni (il recluso più anziano), arrestato a Bangkok nel 2003 con l’accusa di aver fornito supporto finanziario e materiale ai leader di Al-Qaeda, trasferito a Guantanamo nel 2004 e mai processato; e lo yemenita Uthman Abd al-Rahim Uthman, uno dei primi ad essere trasferito in quel carcere, anche lui senza accuse formali e senza processo a carico. Rilasci mai avvenuti: fanno parte dei 13 ancora in attesa di scarcerazione, in attesa di ritrovare la loro libertà.

Gli psicologi e il sistema delle torture

Il sistema di torture applicato in questi vent’anni nel lager di Guantanamo non è casuale, ma frutto del lavoro di due psicologi, che nel 2002 furono ingaggiati dalla CIA (con uno stipendio di 1800 dollari al giorno) per definire un “programma di tecniche di interrogatorio severe”. Lo schema messo a punto da James Mitchell e Bruce Jessen prevedeva il “waterboarding”, una sorte di “annegamento controllato” (detenuti stesi su una panca inclinata, piedi verso l’alto, un panno a coprire bocca e naso, acqua versata in faccia a intervalli regolari fino a rendere quasi impossibile la respirazione), o la privazione sistematica del sonno, o la detenzione in microscopiche celle d’isolamento (53 cm di larghezza per 76 cm di altezza, come stare dentro una valigia). E dopo quei trattamenti, toccava agli interrogatori, che duravano anche 18 ore al giorno. Nel 2005 Mitchell e Jessen costituirono una società privata, specializzata nel formare personale addestrato per condurre proprio quel tipo di interrogatori. Nel 2009, quando il rapporto con la Cia terminò, la società aveva incassato 81 milioni di dollari.

I due psicologi sono stati chiamati, lo scorso anno, a deporre nell’udienza preliminare del processo nei confronti di Khalid Sheikh Mohammed, pakistano, ritenuto la mente degli attacchi dell’11 settembre. Secondo i suoi avvocati, l’imputato è stato sottopostoa “waterboarding” 183 volte nell’arco di due settimane. E non si tratta dell’unico caso, anzi. Zayn al-Abidin Muhammad Husayn, saudita, arrestato nel 2002 perché sospettato di essere un collaboratore di primo piano del fondatore di al-Qaeda, Osama bin Laden, ha denunciato di essere stato sottoposto 83 volte alla tecnica dell’annegamento, e in un’altra occasione costretto a restare immobile per 11 giorni all’interno di una cassa di legno delle dimensioni di una bara. Lo psicologo James Mitchell, che il New York Times definisce “l’architetto del programma d’interrogatori dell’era Bush”, ha difeso il suo operato. «Lo rifarei», ha risposto ai giudici. «Il dovere morale di proteggere le vite dei miei connazionali prevaleva sulle sofferenze che avrei provocato nei terroristi che ci avevano attaccato volontariamente. Lo percepivo come una mia responsabilità morale». Nel 2017 l’American Psychological Association ha rinnegato Mitchell e Jessen per «aver violato l'etica della loro professione e aver lasciato una macchia sulla disciplina della psicologia». Il processo della commissione militare contro Khalid Shaikh Mohammed e altri 4 detenuti si terrà a Guantanamo, dal 7 al 25 marzo 2022.

Agghiacciante la testimonianza di Ahmed Rabbani, pachistano, rilasciato lo scorso ottobre dopo 17 anni di detenzione a Guantanamo. Un errore di persona. «Non ero nessuno, ero solo un tassista di Karachi. Sono stato catturato dal governo del generale Musharraf e venduto alla CIA per una taglia. Gli americani mi hanno portato a Kabul, in un posto chiamato “Dark prison”. Mi hanno torturato per 540 giorni, prima di essere portato a Guantanamo. Mi hanno appeso per un polso a un gancio di ferro e calato in un buco nero dove a malapena riuscivo a toccare il pavimento. Al buio, senza mangiare, senza bere, musica alta, in mezzo ai miei escrementi. Sanguinavo da naso e bocca, ho perso conoscenza non so quante volte…». «Ho saputo successivamente che la tecnica era stata ideata sempre da Jessen e Mitchell, riprendendola da una pratica dell’Inquisizione spagnola. Il dolore era lancinante. Desideravo soltanto morire». E come lui molti altri: testimonianze che hanno ispirato inchieste giornalistiche, romanzi e film: come “The Report”, pellicola del 2019, che racconta il lavoro dello staff della senatrice Dianne Feinstein, che ha trascorso anni per raccogliere documenti (il rapporto che fu presentato al Senato era di 6700 pagine) per documentare l’uso sistematico della tortura da parte della Cia a Guantanamo. O il libro di memorie “Guantánamo Diary”, pubblicato nel 2015 da Mohamedou Ouid Slahi, imprigionato innocente per 14 anni in quel carcere. Da quel manoscritto di 466 pagine, poi tradotto in 25 lingue, è stato tratto il film “The Mauritianian”, uscito lo scorso anno (con Jodie Foster premiata con un Golden Globe per la sua interpretazione).

«Prigionieri per sempre»

Incredibile che il carcere di Guantanamo, alla luce di quanto emerso in tutti questi anni (peraltro sopravvivendo alla stessa invasione dell’Afghanistan, terminata senza gloria la scorsa estate), non sia stato ancora chiuso. Non c’è riuscito Barack Obama (per l’opposizione del Congresso), non ci sta riuscendo Joe Biden, che sta evitando di affrontare di petto il problema. Forse più preoccupato dalle divisioni interne (il Dipartimento di Giustizia ha deciso di istituire una nuova unità per contrastare il terrorismo interno, una minaccia in ascesa dopo il violento assalto a Capitol Hill) e dall’effetto che una decisione su Guantanamo potrebbe avere sulle già problematiche elezioni di mid-term. Secondo Daphne Eviatar, direttrice del programma “Security with Human Rights” di Amnesty International USA, «questo è un anniversario che non avremmo mai dovuto raggiungere. Il presidente Biden deve mantenere il suo impegno di chiudere Guantánamo una volta per tutte. Più a lungo la prigione rimane in uso, più a lungo continua a minare la credibilità degli Stati Uniti a livello globale sui diritti umani». Scrive il Los Angeles Times: «Tenere aperta Guantanamo costa circa 13 milioni di dollari all'anno per detenuto e la struttura è un simbolo delle violazioni dei diritti umani da parte degli Stati Uniti. Ci sono poche ragioni per credere che le cose cambieranno nel prossimo futuro. Ma se non viene trovata una soluzione per chiudere Guantanamo, gli Stati Uniti finiranno per imprigionare perennemente una popolazione anziana di uomini che dovrebbero essere processati nei tribunali federali, o avrebbero dovuto essere liberati molto tempo fa». Anche il ministro degli Esteri cubano, Bruno Rodríguez, ha chiesto la chiusura della struttura: «Dopo vent’anni di torture e trattamenti degradanti, si ponga fine a quell’atroce prigione».

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