SOCIETÀ

Le guerre e le crisi umanitarie dimenticate nel mondo

È opinione comune che quello attuale sia il più lungo periodo di pace nella storia dell’uomo; in realtà, a livello globale, il numero di conflitti in atto è ancora tristemente cospicuo. La maggior parte di queste situazioni di crisi si concentra nei cosiddetti paesi in via di sviluppo, spesso reduci da lunghi decenni di dominazione coloniale e oppressi da dittature, corruzione, sfruttamento economico.

Secondo un recente studio condotto dal Norwegian Refugee Council, pubblicato a giugno 2019, la maggior parte di queste situazioni critiche è “dimenticata”: il mondo occidentale non vi presta la necessaria attenzione mediatica, né, come comunità internazionale, offre un adeguato supporto economico.

Nel rapporto vengono presi in considerazione dieci paesi che si trovano, oggi, ad affrontare difficili crisi umanitarie: tra i dati che emergono dallo studio, uno dei più significativi è quello che mostra come la maggior parte di esse – ben sette su dieci – si concentri nel continente africano, le cui nazioni sono afflitte da guerre croniche, spesso latenti. Si tratta, perlopiù, di conflitti interni ai singoli paesi, in cui a combattere sono fazioni etniche, religiose, politiche; spesso, tuttavia, le motivazioni reali del conflitto sono molto più profonde delle cause prossime che generano l’esplosione delle violenze.

Povertà, corruzione politica, iniquità nella distribuzione delle risorse sono tutti fattori che, se sommati, possono facilmente sfociare in conflitti o situazioni di crisi ed instabilità, peggiorando ulteriormente le condizioni di vita delle popolazioni locali. Rispetto a questa situazione, il mondo occidentale ha un peso non indifferente. Il professor Luca Ciabarri, docente di Antropologia culturale, esperto di conflitti e migrazioni nella regione del Corno d’Africa, spiega come le emergenze del presente vadano sempre comprese in una più profonda dimensione temporale: “Le motivazioni storiche sono ampie e intrecciano breve, medio e lungo periodo”, e si presentano, nei diversi contesti, con forme e legami di causalità specifici.

Innanzitutto bisogna ricordare le eredità coloniali – che hanno creato Stati o troppo autoritari, o dotati di una legittimazione molto debole –, con la dipendenza economica dall’esterno e i molteplici conflitti e tensioni potenziali che queste hanno lasciato”. Eventi salienti della storia recente, che hanno contribuito a determinare le attuali condizioni socio-politiche di molti paesi africani, sono anche “la transizione dall’epoca del colonialismo a quella delle indipendenze nazionali, mai pienamente realizzate; la militarizzazione durante la Guerra Fredda; infine, dopo il 1990, l’operare inefficace di una diplomazia che ha seguito solo logiche e interessi economici”.

Come evidenzia Sara de Simone, dottore di ricerca in Studi africani e presidente della Onlus Mani Tese, “oltre all’eredità del colonialismo – che ha normalizzato un sistema di governo predatorio e autoritario e un modello economico basato sullo sfruttamento –, all’odierna comunità internazionale vanno attribuite principalmente due responsabilità”: da una parte, il continuo sostegno accordato a regimi dittatoriali e corrotti, decisione presa in nome di una pax internazionale che non tiene però minimamente conto degli effetti sulle popolazioni locali; dall’altra, la colpevole mancanza di tempestivi interventi di mitigazione delle conseguenze del cambiamento climatico, e l’impegno tuttora insufficiente in quest’ambito.

In particolare, la questione ambientale è oggi, soprattutto in quelle regioni, un problema di primo piano: “L’Africa subsahariana – spiega de Simone – è infatti tra le regioni del mondo più colpite dagli effetti del cambiamento climatico: negli ultimi anni, la desertificazione di vaste aree ha costretto popolazioni numerose a spostarsi progressivamente verso le zone tropicali, aumentando la pressione sulle risorse naturali; inoltre le recenti cronache, provenienti dall’Africa orientale, di alluvioni e invasioni di cavallette che devastano i villaggi e la produzione agricola sono un’altra triste testimonianza di una situazione sempre più fuori controllo”. Chiaramente, le modificazioni del contesto naturale non hanno ovunque pari conseguenze: “I fattori considerati naturali – rimarca Ciabarri – vanno sempre pensati nella loro dimensione sociale e politica: i loro effetti non colpiscono i gruppi sociali e gli Stati uniformemente, ma in modo fortemente diseguale, lungo le linee di maggiore o minore povertà o marginalità sociale”. Nel far fronte ai cambiamenti climatici, dunque, è necessario concentrarsi, prima di tutto, sulla capacità di reazione e di adattamento delle singole comunità.

Di fronte alla vastità e alla complessità delle varie situazioni di crisi che costellano il panorama africano, bisogna in primo luogo comprendere i termini della questione, acquisendo consapevolezza della natura e delle reali dimensioni di questi fenomeni: “Molte di quelle che si presentano come guerre etniche, ad esempio, nascono in realtà da problematiche molto più profonde, legate all’accesso alle risorse o alla marginalizzazione politica di intere fasce della popolazione”, rileva la dottoressa de Simone.

I paesi occidentali, e la comunità internazionale tutta, dovrebbero insomma abbandonare il diffuso atteggiamento di irrazionalità e sospetto nei confronti delle situazioni di crisi che si verificano nel Sud globale, e promuovere invece un approccio integrato di supporto. Come suggerisce de Simone, “da un lato bisogna potenziare la cooperazione internazionale per favorire processi virtuosi di sviluppo locale; dall’altro rivalutare globalmente l’insieme delle proprie politiche e l’impatto che queste hanno sui paesi del Sud”. Come è stato posto in luce dal cambiamento climatico, le azioni e le politiche messe in atto nei decenni passati dai paesi del Primo Mondo hanno avuto pesanti ricadute sul benessere delle comunità più deboli, che non hanno potuto a loro volta difendersi e che ora, per di più, rischiano di trovarsi ad affrontare da sole sfide complesse, la cui risoluzione non può più essere rimandata.

"Voices from the frontline of Climate Change": Somalia - World Food Programme

Ma come è possibile, allora, che molte di queste crisi siano “dimenticate”? Come pone in evidenza il rapporto del Norwegian Refugee Council, infatti, non sempre la copertura mediatica è proporzionata alle dimensioni della crisi umanitaria in atto. Spiega de Simone: “I media occidentali dànno maggiore attenzione alle crisi che possono avere un impatto diretto sulla sicurezza dei loro paesi. In Italia e in Europa, ad esempio, riceviamo molte informazioni sul Nord Africa e sulla fascia Saheliana (Niger, Mali, Ciad) perché sono le regioni attraverso cui transitano i migranti che giungono sulle nostre coste; non sappiamo quasi nulla, invece, della guerra in Sud Sudan e poco di quella in Congo, poiché questi paesi sono lontani e i loro rifugiati difficilmente riescono a superare il Sahara per imbarcarsi poi verso l’Europa”.

Tali disuguaglianze nell’attenzione accordata alle diverse realtà di conflitto, e nell’impegno profuso per portare aiuto, sono perciò spesso dovute ad una essenziale mancanza di volontà politica da parte dei paesi occidentali, i quali preferiscono voltare la testa che ammettere le proprie responsabilità ed agire di conseguenza. Questo colpevole disinteresse non è privo di conseguenze: a pagarlo sono i milioni di persone che devono tentare di sopravvivere in situazioni lesive dei diritti umani e in contesti ambientali sempre più inospitali. Di fronte all’inerzia delle istituzioni, allora, dobbiamo scendere in campo noi cittadini: “È giusto – sostiene il prof. Ciabarri – che ci consideriamo soggetti attivi, e non passivi, non mera opinione pubblica, ma cittadinanza attiva, e che chiediamo, che esigiamo che sia conferita maggiore attenzione a questi temi”.

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