CULTURA

"Henri Cartier-Bresson. Le Grand Jeu"

Annie Leibovitz, tra i curatori "speciali" scelti per la mostra Henri Cartier-Bresson. Le Grand Jeu, a Palazzo Grassi a Venezia, racconta due aneddoti sul grande fotografo francese: nel primo la co-protagonista è Susan Sontag - fotografata nel 1972 durante un incontro casalingo nel suo appartamento parigino da un Cartier-Bresson fintamente disinteressato allo scatto, con la Leica appoggiata sulle ginocchia -, nel secondo la co-protagonista è la stessa Leibovitz, giovane fotografa americana, all'inizio della carriera, calata nell'atmosfera di una Parigi di fine anni Settanta. Due storie brevi, due ricordi condivisi, per una narrazione capace di stimolare la fantasia del visitatore e di intrecciare la vaghezza di quel che non possiamo vedere, ma solo immaginare, con la visione concreta e immediata di scatti in bianco e nero che catturano un preciso istante (e in questo Cartier-Bresson era maestro), fermando il tempo e, insieme, dilatandolo all'infinito. Una scelta che permette al visitatore di entrare pienamente nel mondo di Cartier-Bresson (1908–2004) proprio grazie all'incontro tra queste istantanee di vita privata, affidate al racconto scritto sulle pareti espositive, e la potenza visiva universale della fotografia.

L'incontro di Leibovitz con "l'occhio del secolo" rende vivo ed estremamente personale il suo percorso espositivo e dà senso, valore, identità agli scatti da lei selezionati, evidenziando quel jeu del titolo, gioco, parola che in francese si avvicina a je, che significa io.

"Ho incontrato Cartier-Bresson una volta, nel 1976, al mio debutto come fotografa per la rivista Rolling Stone [...]  Non avevo appuntamento, ma quando sono andata all'agenzia Magnum, lui era là. Mi ha proposto di accompagnarlo a piedi a casa sua. Abbiamo pranzato insieme, ma non ha mai voluto farsi fotografare o intervistare. Perché una persona che ha consacrato la vita alla fotografia rifiuta di lasciarsi fotografare?". E il racconto continua con l'appostamento di Leibovitz sul ponte pedonale, attraversato il giorno precedente, con le foto scattate di nascosto, cercando di non farsi notare, e la successiva reazione infuriata di Cartier-Bresson, colto dall'obiettivo della fotografa ma accortosi ben presto dell'imboscata: "Come ha potuto farmi questo?", grida rivolgendosi a Leibovitz. "Io ho abbassato la macchina fotografica, lui è rimasto in silenzio per un istante. Ripresa la calma, mi ha detto: Se vuole scattarmi una foto, lo faccia nel modo corretto. Ho scattato qualche altra immagine poi, con mia grande sorpresa, lui mi ha detto: Bene, allora andiamo. Ci siamo avviati insieme verso l'agenzia Magnum e lui mi ha confidato di non voler essere fotografato perché aveva la sensazione di non poter più lavorare per strada se le persone avessero conosciuto il suo viso". La gente avrebbe senza dubbio cambiato atteggiamento sapendo di essere fotografata, e non era quello che lui voleva. E Leibovitz conclude: "Oggi lo capisco benissimo, ma allora ero troppo giovane. Quella foto non l'ho mai pubblicata".

Non penso alla fotografia. Non ci penso mai. Non ci penso, la faccio, è diverso Henri Cartier-Bresson

La selezione di Leibovitz si può ammirare a Palazzo Grassi fino al 20 marzo 2021 (quando la mostra si sposterà alla Bibliothèque nationale de France di Parigi), insieme ai percorsi firmati dal collezionista François Pinault, dallo scrittore Javier Cercas, dal regista Wim Wenders e dalla conservatrice Sylvie Aubenas, riuniti a Venezia per dar vita a un progetto espositivo coordinato da Matthieu Humery, curatore generale.

I cinque artisti e intellettuali si sono confrontati con la Master collection (di cui esistono solo sei esemplari conservati al Victoria and Albert Museum di Londra, alla University of Fine Arts di Osaka, alla Bibliothèque nationale de France, alla Menil Foundation di Houston, alla Pinault Collection e alla Fondation Henri Cartier-Bresson), una selezione di scatti operata dallo stesso Cartier-Bresson nel 1973, su invito dei collezionisti Dominique e John de Menil, dopo oltre vent'anni di intensa attività con l'agenzia Magnum Photos, da lui fondata, insieme a Robert Capa e David Seymour, nel 1947: 385 immagini considerate le migliori dallo stesso fotografo, una riflessione definitiva sulla propria produzione fotografica.

Ogni curatore ha scelto una cinquantina di fotografie, in totale libertà. Il risultato sono cinque esposizioni autonome, indipendenti una dall'altra, e proprio per questo motivo, alcuni scatti sono presenti più volte. Scrive Matthieu Humery nel catalogo della mostra: "Questa completa libertà offerta ai cinque curatori ha fatto sì che non avessimo alcuna idea sulla direzione in cui sarebbero andate le loro scelte. Ed è stupendo che, da questo Grand Jeu, escano cinque testimonianze, intime e colte, in ognuna delle quali si può facilmente riconoscere la firma". Quello che viene proposto non è solo il ritratto complesso, ricco e sfaccettato di Cartier-Bresson, ma anche il ritratto di Annie Leibovitz, di Javier Cercas, di Sylvie Aubenas, di Wim Wenders e di François Pinault. "La selezione compiuta da quel corpus universale non è forse un modo per mettere a nudo la personalità dei curatori? - si chiede Humery - Vedere le opere di Cartier-Bresson sotto un’altra luce rivelando una parte della personalità del curatore: è questa reversibilità, questa doppia sfida, che fa della mostra un momento inedito per la comprensione della forza delle immagini dell’occhio del secolo".

Il tiro fotografico... Scattare la foto è la mia passione [...] Non mi interessa il risultato, solo il tiro" Henri Cartier-Bresson

Particolarmente suggestivo è l'allestimento realizzato da Wim Wenders.

Il suo percorso espositivo ricrea l'atmosfera di una sala cinematografica durante la proiezione di un film: uno spazio buio, magico e sospeso, punto di incontro ideale tra cinema e fotografia, confine tra i territori abitati dal regista e quelli attraversati dal fotografo. Anche il regista de Il cielo sopra Berlino offre un personale racconto del suo incontro con Cartier-Bresson: "Ricordo l’unica volta in cui l’ho incontrato, a Parigi. Fu in occasione di una festa, alla fine degli anni ottanta. C’era molta altra gente, e abbiamo passato solo poco tempo da soli. Quando tutti se ne stavano andando, lui si offrì di riaccompagnarmi in albergo. All’improvviso ci ritrovammo nella sua utilitaria, noi due soli. Lo guardai. Sembrava genuino, gentile, premuroso e anche un po’ fragile. Stava attento al traffico e guidava in silenzio. Io ero molto intimidito…".

E con una certa ironia, richiamando le illusioni del cinema, Wenders sceglie di esporre anche il modellino di Leica in legno e metallo realizzato dall'artista Saul Steinberg proprio per l'amico fotografo: "È stato Saul Steinberg a regalarmi quest'opera - spiegava lo stesso Cartier-Bresson in un'intervista rilasciata a Le Monde nel 1974 - un magnifico oggetto di sua invenzione: un apparecchio fotografico formato da un blocco di legno, con un cardine che simula il mirino, un grosso dado che simula l'obiettivo. Guardare, trovare l'ordine, diventa quasi un fine a sé, una specie di assoluto: questo mi rende altrettanto contento di fingere di fotografare con una finta Leica che con una vera".

Estratto dal video di Wim Wenders presente in mostra a Venezia

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