SOCIETÀ

Israele e l'incubo di un governo che non c'è

Nessuna svolta, nessun colpo di scena. La politica israeliana scivola ancora una volta sul piano inclinato dell’instabilità, di nuovo ostaggio dei veti incrociati tra i diversi partiti, invischiata in uno scontro, a tratti feroce, che sembra non trovare soluzioni percorribili. Comunque non le ha trovate Benny Gantz, leader del partito Blu-Bianco, che poche ore fa ha terminato il suo mandato esplorativo senza riuscire a elaborare una proposta credibile di governo. Le ha provate tutte, come già aveva fatto il premier uscente Netanyahu, il primo a ricevere l’incarico dal presidente Rivlin dopo le elezioni del 17 settembre. Ma alla fine anche l’ex capo di stato maggiore è stato costretto ad arrendersi. L’accordo non si trova. Soprattutto non si trova un punto di convergenza tra Likud e Blu-Bianco, come aveva peraltro suggerito lo stesso presidente d’Israele. "Ho chiesto al primo ministro che ha perso le elezioni di tenere negoziati diretti", ha commentato Gantz annunciando la rinuncia al mandato. "E in risposta ho ricevuto insulti e calunnie. La gente ha scelto me e i miei colleghi di Blu-Bianco per guidare Israele. Nessuno ha il diritto di impedire alle persone di scegliere".

Verso la terza elezione

Uno stallo che lascia Israele, al culmine di una escalation di tensione (politica e militare), in un profondo stato d’incertezza. Ora la Knesset (il Parlamento israeliano) avrà 21 giorni di tempo (dunque entro l’11 dicembre) per indicare un nuovo candidato ad assumere la carica di primo ministro. Ma il problema resta sempre lo stesso: assemblare una coalizione in grado di governare il paese. Se anche questo tentativo dovesse fallire, l’unica strada praticabile resterebbe quella di tornare al voto. E sarebbe il terzo in un anno: mai era accaduto. La data più probabile per le prossime elezioni sembra quella del 17 marzo 2020.

Ma quel che è accaduto in questi giorni (gli incontri, le aperture, i veti, le strategie, le accuse) resta emblematico per tentare di comprendere cosa sta accadendo nel cuore della politica israeliana. Al centro della scena c’è sempre lui: Bibi Netanyahu, l’invincibile, il premier più longevo nella storia del paese (ruolo che peraltro continua a ricoprire, nel disbrigo dell’amministrazione, non soltanto ordinaria, in attesa che si formi il governo che prima o poi gli succederà). E’ stato il primo a ricevere il mandato, nonostante il partito Blu-Bianco l’avesse sopravanzato di un pugno di voti. Perché la coalizione che guida (in totale 55 seggi), pur insufficiente nei numeri a raggiungere il quorum necessario alla Knesset (61 parlamentari), era comunque la più consistente. Ma il tentativo è andato a vuoto. Anche perché Netanyahu è una figura sempre più ingombrante e scomoda, capace di attuare politiche spregiudicate, peraltro rincorso da tre diverse inchieste per corruzione che potrebbero minarne il futuro politico: decisivi sono stati i no di Avigdor Liberman, leader di Yisrael Beiteinu, uno dei falchi della destra, ex alleato di ferro dello stesso Netanyahu (insanabili i dissidi con i partiti religiosi ultraortodossi alleati del Likud), e degli stessi leader del partito Blu-Bianco. 

Una reazione rabbiosa

Così il presidente Rivlin ha incaricato Benny Gantz. Che aveva cominciato a tessere una complessa tela di relazioni con i più aspri oppositori di Netanyahu (che ha sempre voluto trattare in nome dell’intero blocco di destra e non soltanto a nome del Likud): a partire dalla Joint Arab List, la lista unita degli arabi israeliani, che alle ultime elezioni era riuscita ad ottenere 13 seggi in Parlamento. Il vero stallo delle trattative s’è creato proprio nel momento in cui si è aperto uno spiraglio per la formazione di un governo di minoranza, guidato da Blu-Bianco con l’appoggio diretto dei Laburisti e con l’appoggio esterno della Joint List e di Avigdor Liberman. Appena un’ipotesi (peraltro con molte fragilità), ma sufficiente per scatenare la reazione rabbiosa di Netanyahu. Che ha immediatamente organizzato una «manifestazione d’emergenza per fermare il pericoloso governo di minoranza che fa affidamento sui sostenitori del terrore». Meglio il caos politico, meglio una terza elezione pur di non vedere al governo gli arabi israeliani. In quell’occasione il premier uscente ha apertamente accusato (senza produrre alcuna prova) i membri della Joint List di «sostenere le organizzazioni terroristiche contro cui Israele sta combattendo». Provocando la sconcertata reazione di Yair Lapid, numero 2 di Blu-Bianco, che ha paragonato la retorica di Netanyahu a quella di un seguace del terrorista ebreo Baruch Goldstein, che il 25 febbraio 1994 aprì il fuoco contro un gruppo di musulmani in preghiera nella tomba di Hebron, uccidendone 29 e ferendone altri 125. «Le parole che sono uscite dalla bocca di Netanyahu negli ultimi giorni sono istigazione alla violenza», ha scandito Lapid davanti ai giornalisti israeliani. «Sono parole pronunciate da un seguace di Baruch Goldstein, non da un primo ministro. Finirà male. Anche lui sa che finirà male».

La carta della guerra

Questo per dire del clima che si respira. Ma Netanyahu ha fatto di più. Ha indossato l’elmetto, il suo giocattolo preferito. La notte tra l’11 e il 12 novembre le Forze Armate israeliane hanno assassinato il comandante della Jihad islamica palestinese a Gaza, Baha Abu al-Ata, e la moglie. Un blitz ordinato dallo stesso Netanyahu, che ha descritto Al-Ata come «responsabile di molti attentati terroristici e lancio di razzi su Israele». Per poi concludere: «Stava per mettere in atto nuovi attentati, perciò la decisione di eliminarlo è stata necessaria per sventare una minaccia imminente». Un attacco che ha ovviamente provocato l’immediata reazione dei palestinesi, con decine di razzi lanciati da Gaza verso Israele. Il presidente Reuven Rivlin ha dichiarato: «Siamo con le forze di sicurezza che hanno lavorato per il successo dell'operazione da molto tempo. So che loro e il governo israeliano che ha approvato l'operazione hanno in mente la sicurezza di Israele e solo questo». Mentre secondo Saeb Erekat, segretario generale dell'OLP, si è trattato di un crimine: «Il governo israeliano ne subirà le conseguenze». Infine è arrivato quello che viene definito “il terzo regalo di Trump a Netanyahu”: le parole del segretario di stato americano Mike Pompeo, che il 18 novembre, in una conferenza stampa, ha dichiarato: «Dopo aver esaminato attentamente tutti gli argomenti di questo dibattito giuridico, abbiamo concluso che l’insediamento delle colonie di civili in Cisgiordania non è contrario al diritto internazionale». 

Non un dettaglio, dal momento che contraddicono clamorosamente l’opinione espressa nel 1978 dal Dipartimento di Stato statunitense, un’opinione che era stata finora assunta come “base portante” della politica americana sulla questione mediorientale. Ma sono in molti a ritenere che questa dichiarazione sia stata “pretesa” dallo stesso Netanyahu, che subito s’è affrettato a commentare: «Una decisione importante che corregge uno sbaglio storico». Tanto che gli arabi israeliani hanno immediatamente preso posizione: «E’ una palese, ingiustificabile intrusione nelle vicende interne a Israele, oltre che l’ennesima picconata al negoziato di pace», ha commentato Ayman Odeh, presidente della Joint List, intervistato da HuffPost. "Siamo al fondamentalismo che si fa politica. La nostra posizione è chiara, anche alla luce della vergogna sugli insediamenti: la Joint List non sosterrà mai un esecutivo dii cui facciano parte Netanyahu e i falchi amici dei coloni".  Infine l’ultimo raid: la notte fra martedì 19 e mercoledì 20 novembre l’esercito israeliano ha attaccato una ventina di obiettivi alla periferia di Damasco, in Siria. Secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani, il bombardamento ha provocato 23 morti.

L’incriminazione di Netanyahu è in arrivo

In questo scenario, colmo di tensione politica e militare, Benny Gantz è stato costretto a una mossa disperata: su pressione del presidente Rivlin, ha incontrato Netanyahu, a poche ore dalla scadenza del mandato, per offrirgli un governo in ticket, con una leadership a rotazione, ma con la promessa che, in caso di conferma delle accuse da parte del procuratore generale (passaggio che dovrebbe avvenire tra oggi e l’inizio della prossima settimana), si sarebbe fatto da parte. Una mossa che ha quasi spaccato il partito Blu-Bianco e segnato un’immediata presa di distanza da parte dei Laburisti, con il presidente Amir Peretz che ha dichiarato: "Abbiamo promesso ai cittadini israeliani il cambiamento e la speranza, e quindi non ci siederemo in nessun governo guidato da Netanyahu". Tutto inutile: King Bibi non ha voluto accettare alcuna ipotesi che non preveda lui e soltanto lui alla guida del futuro governo. Perché il suo vero obiettivo è l’immunità giudiziaria, a qualsiasi costo. Ora, con la formale incriminazione di Netanyahu, la partita si sposta sul piano giudiziario. E King Bibi, l’invincibile, sembra di nuovo all’angolo. 

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