SOCIETÀ

Israele e lo spettro delle nuove elezioni politiche

Israele è in stallo permanente. Di nuovo in bilico, di nuovo sull’orlo dell’ennesima elezione che probabilmente nulla risolverebbe, ma che di certo prolungherà a oltranza questo vuoto di potere che si protrae dal dicembre 2018, questa incapacità oramai cronica di formare una maggioranza politica che abbia un minimo di solidità. E sarebbero le quarte elezioni nel giro di poco più di un anno, da svolgere peraltro in piena emergenza Covid-19. Allo scadere della mezzanotte di ieri, Benny Gantz, leader del partito Blu-Bianco, che aveva ricevuto l’incarico a formare il governo dal presidente Rivlin, si è dovuto arrendere dopo un’interminabile serie di incontri con il Likud di Benjamin Netanyahu. L’accordo sembrava lì, a un passo. Invece, per l’ennesima volta, qualcosa (qualcuno) ha fatto saltare il tavolo. Perché il nodo, inestricabile, è sempre quello giudiziario, i processi per corruzione, frode e abuso di potere che incombono su Netanyahu. 

Quindi tutto da rifare, a meno che una soluzione non si trovi entro le prossime tre settimane. E non sarà semplice. Perché il presidente Rivlin, dopo aver visto fallire i rispettivi tentativi di Netanyahu e Gantz, ha affidato il nuovo incarico direttamente al Parlamento israeliano, la Knesset (di cui Benny Gantz è da pochi giorni presidente, eletto il 26 marzo scorso, un po’ a sorpresa, con l’appoggio del Likud). L’incarico è di formare una maggioranza qualificata (almeno 61 parlamentari) entro 21 giorni. Altrimenti si andrà di nuovo alle elezioni. In realtà si tratta di un tecnicismo: gli unici due leader che possono sbloccare la situazione (e attirare attorno a sé una maggioranza) sono Gantz e Netanyahu. Che dunque hanno ancora tre settimane di tempo per trattare. Ma partendo da posizioni (sia politiche, sia d’immagine) diametralmente opposte. 

Il nodo dei processi a Netanyahu

Perché non tutti escono sconfitti da questo stallo. Di sicuro perde Israele, costretta ancora ad aggiornare il suo record di governo vacante. Ma perde soprattutto Benny Gantz, che pur di raggiungere un accordo «in questo momento di emergenza nazionale» si era perfino rimangiato la parola data come un mantra negli ultimi mesi: «Il mio partito non è disposto a far parte di un governo il cui primo ministro possa essere incriminato per gravi capi di accusa»). «Questi non sono giorni ordinari e richiedono decisioni non ordinarie», aveva dichiarato Gantz, tentando di spiegare il voltafaccia. «Pertanto intendo esaminare e promuovere in ogni modo l’istituzione di un governo di emergenza nazionale. Ma non scenderemo a compromessi sui principi per cui più di un milione di cittadini hanno votato. Netanyahu lo sa bene». Una mossa che è costata assai cara all’ex capo di stato maggiore dell’esercito: la scissione immediata del suo partito, con una buona metà dei suoi parlamentari che si sono dissociati dal leader, lasciando così evaporare in un attimo l’unica credibile formazione che poteva avere una possibilità di competere contro lo strapotere del Likud. Una mossa che ha “spaccato il cuorealla sinistra israeliana”, come ha titolato il quotidiano Haaretzin un editoriale. 

Sui “compromessi”, tuttavia, Gantz ha tenuto il punto. Perché il tavolo è saltato proprio sulla questione giudiziaria. Netanyahu ha preteso fino all’ultimo la nomina del ministro della Giustizia e del capo della commissione parlamentare che si occupa della designazione dei giudici. E il leader di Blu-Bianco questa volta non si è piegato. Il vero target di King Bibi era (ed è tuttora) avere mano libera per rimuovere il procuratore generale, nominarne uno a lui vicino e, diciamo così, creare le condizioni per arrivare a una sua assoluzione dai capi d’accusa (sono 3 i processi a suo carico). La prima udienza del processo era prevista per il 17 marzo. Il coronavirus ha fatto slittare tutto al 24 maggio. Decisione presa dal ministro della Giustizia Amir Ohana (Likud): «Tutti i tribunali devono ridurre al minimo le attività, per evitare il rischio d contagio». Per Netanyahu è una questione vitale non perdere il controllo di quel dicastero.

Vince sempre Netanyahu

Ma King Bibi è come il banco al casinò: vince sempre. Vince quando tutti perdono, come spesso accade a chi nulla (o troppo) ha da perdere. Quindi tira la corda allo stremo, come ha fatto ieri, pur di ottenere quel che vuole. E il naufragio dell’incarico a Gantz per lui non è una sconfitta, tutt’altro. Anzitutto perché lo stallo lo mantiene sulla poltrona di premier, anche se uscente: e dunque in grado di controllare qualsiasi foglia si muovi. In secondo luogo perché le tre settimane di tempo concesse alla Knesset per tentare in extremis di formare una nuova maggioranza non sono altro che un prolungamento del tavolo di trattativa tra lui e Gantz (non ci sono alternative). In terzo luogo perché, qualora si dovesse davvero andare alla quarta elezione (dopo quelle di aprile 2019, settembre 2019 e gennaio 2020), non soltanto la situazione attuale sarebbe cristallizzata per altri mesi, ma Netanyahu stesso sarebbe favoritissimo per la vittoria finale, con un numero di seggi sufficiente (forse, dipenderà dalle coalizioni) a fargli formare una maggioranza. Perché il voltafaccia di Benny Gantz, pur motivato con l’emergenza sanitaria del momento, ha mandato in frantumi Blu-Bianco, l’unico vero competitor che poteva mettere in crisi il regno del premier più longevo di Israele. Perché Netanyahu ha giocato con Gantz come il gatto col topo, fino a costringerlo al passo falso finale. Questione di furbizia, di scaltrezza politica: un terreno dove Bibi non ha rivali. Si è ripreso il centro della scena, ammesso che l’abbia mai lasciato. Toglierlo di lì sarà ora ancor più complicato.

Il Likud accelera nei sondaggi

Secondo gli ultimi sondaggi, il Likud otterrebbe 40 seggi (che sommati a quelli dei partiti a lui connessi gli garantirebbe una maggioranza di 64 seggi su 120). Blu-Bianco, in virtù della scissione, si fermerebbe a 19 seggi (ne aveva 33), con le due nuove formazioni composte dai fuoriusciti da Blu-Bianco, Yesh Atid e Telem, accreditate di 10 seggi. Terza forza si confermerebbe la Joint List, che riunisce i quattro partiti arabo-israeliani, sempre con 15 seggi. Il partito laburista non raggiungerebbe nemmeno la sogliadel 3,25%, indispensabile per entrare in Parlamento.

Un paio di settimane fa il presidente israeliano Reuven Rivlinaveva rivolto un appello accorato al paese: «Questo è un momento difficile, non solo per il sistema sanitario e l'economia, ma per tutti noi come società. Il successo dello Stato di Israele nell’affrontare questa crisi estrema è nelle mani della nostra società civile. Dobbiamo lavorare per formare un governo il più presto possibile». Parole al vento.

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