SCIENZA E RICERCA

L'addio al carbone della Germania: "Alto valore simbolico e operativo"

“Adattamento” e “mitigazione” sono i due mantra che risuonano più spesso nei dibattiti sulle soluzioni per il cambiamento climatico. I negazionisti sono ormai pressoché privi di voce nel dibattito pubblico, e recentemente anche la politica ha iniziato a reagire positivamente alle pressioni della società civile, sempre più sensibile alle tematiche ambientali. 

Con la firma dell’Accordo di Parigi e, successivamente, con l’adesione all’Agenda 2030, approvata nel 2016 dalle Nazioni Unite, l’Europa ha assunto una posizione trainante in quel necessario processo di transizione ecologica che ha l’obiettivo di modificare in modo sostanziale vasti settori della nostra società, dall’industria, ai trasporti, all’approvvigionamento di energia, al sistema di sfruttamento delle risorse naturali. In questo solco tracciato dall’Unione si è inserita, negli ultimi anni, anche la Germania – la quale è peraltro, tra gli Stati membri, uno dei più inquinanti: ad essa va attribuito più del 20% del totale delle emissioni di gas serra dell’UE.

Nel novembre 2016, infatti, il Parlamento tedesco ha approvato il German Climate Action Plan 2050, un pacchetto di misure vòlto a ridurre drasticamente, entro il 2050, il tasso di emissioni dell’intero Paese. Il provvedimento è molto ampio, e riguarda vari settori: tra questi l’energia, i trasporti, l’edilizia, l’industria e l’agricoltura. Notevoli, in particolare, sono gli obiettivi nel campo dell’innovazione delle fonti energetiche: se già oggi la Germania produce il 35% dell’energia interna mediante fonti rinnovabili, la meta per il 2050 è di raggiungere la soglia del 65% di energia “pulita” e l’eliminazione pressoché completa della dipendenza dal carbone, che ancora soddisfa circa un terzo del fabbisogno interno. 

Il programma per la decarbonizzazione del Paese, presentato nel 2019 dalla cancelliera Merkel, è molto ambizioso: punta, infatti, alla chiusura di tutte le centrali a carbone ancora attive – presenti soprattutto nelle regioni orientali e nella Renania settentrionale-Vestfalia – e ad una riconversione ecologica dell’intero settore entro il 2038. Per la manovra sono stati stanziati 40 miliardi di euro, che verranno impiegati per sostenere l’adattamento economico delle zone maggiormente interessate e per risarcire gli operatori.

Uno dei punti più importanti è la tassazione delle emissioni, in linea con lo European Emission Trading System (EU ETS), entrato in vigore nel 2015. Il sistema è basato sul “cap and trade system: viene impostato, a livello comunitario, un tetto massimo annuale di emissioni, e si distribuiscono le quote tra gli operatori che sottostanno alla direttiva (una quota equivale a una tonnellata di CO2eq); si istituisce, poi, un sistema di scambio interno tra chi rimane al di sotto del “cap” assegnato e chi, invece, supera la propria quota. L’obiettivo è la progressiva riduzione delle emissioni complessive: ogni anno, dunque, la quantità totale di quote a disposizione diminuisce. Nel 2030, secondo le previsioni, il tasso di emissioni dell’UE dovrebbe essere inferiore del 43% rispetto al 2005. 

In Germania, il prezzo delle emissioni è stato fissato, inizialmente, a 10 euro per tonnellata di CO2eq, ma salirà progressivamente: nel 2025 dovrebbe attestarsi a 35 euro per quota. I proventi saranno reinvestiti dal governo in programmi di salvaguardia ambientale o verranno redistribuiti tra i contribuenti; sarà inoltre importante il sostegno governativo alle industrie, che riceveranno incentivi per le buone pratiche ambientali, e ai cittadini, per i quali saranno promossi, ad esempio, l’utilizzo dell’elettricità e il passaggio ad una mobilità sostenibile.

Dalle promesse il piano sembra, dunque, molto incoraggiante: ma sarà davvero efficace nell’arginare il cambiamento climatico? Abbiamo chiesto un parere al professor Antonello Pasini, fisico climatologo del CNR. 

Può la decisione di ridurre il proprio contributo di emissioni da parte di un singolo Stato europeo, per quanto industrializzato – nell’economia tedesca, infatti, ha tradizionalmente un peso rilevante l’industria pesante – avere un effettivo impatto sul clima a livello globale?

"Ha, di certo, un valore innanzitutto simbolico, perché la Germania è - come mostra il rapporto IEA “World Energy Balances 2019” - il maggior produttore europeo di carbone. Il Paese, adottando queste misure, s’inserisce a pieno titolo nella direzione indicata dal Green Deal europeo annunciato pochi mesi fa, e per il quale sta ora prendendo avvio l’iter legislativo. L’Europa ha preso un impegno importante: l’obiettivo è la decarbonizzazione del continente entro il 2050 e un investimento di 1000 miliardi di euro in 10 anni. Anche in questo caso, per quanto l’impatto effettivo sia certamente più vasto, il valore primario è di natura simbolica: si tratta, infatti, della prima volta in cui un insieme di Stati decide di mettere in pratica le indicazioni fornite dalla comunità scientifica per rispondere al cambiamento climatico. 

Per uno scienziato del clima, come me, questo risultato è fonte non solo di grande soddisfazione, ma di speranza: mostra, infatti, che gli obiettivi che la comunità scientifica ha suggerito non sono utopici, ma realizzabili; inoltre l’Europa, intraprendendo questo percorso, potrà avere dei significativi vantaggi economici, cavalcando per prima determinati mercati, ad esempio".

È sufficiente procedere soltanto con l’abbandono del carbone, e con un parallelo investimento sulle fonti d’energia rinnovabili, oppure, perché questo provvedimento porti a dei risultati concreti, sarà necessario eliminare anche tutte le altre fonti d’energia fossili, come petrolio e gas naturale?

"È senza dubbio necessario abbandonare tutti i combustibili fossili: il carbone è, ad oggi, il combustibile peggiore da adottare quanto ad emissioni di CO2 – per non parlare delle polveri sottili, dannose per la salute umana, che la sua combustione rilascia nell’aria –, ed è dunque, in ordine gerarchico, il primo da abbandonare. Immediatamente dopo, tuttavia, vanno eliminati anche il petrolio e il gas naturale, che pongono, seppur in modo leggermente inferiore rispetto al carbone, grossi problemi sul piano ambientale. 

L’ideale, dunque, sarebbe abbandonare il prima possibile carbone e petrolio; per il gas naturale, forse, si potrebbe pensare ad un periodo - comunque non lungo - di transizione. Quel che è certo è che dobbiamo smettere di trivellare, accantonare un sistema energetico basato esclusivamente sulle fonti fossili e chiudere anche i siti estrattivi che potrebbero essere operativi ancora per molti anni. 

Bisogna poi agire su altri settori, oltre a quello della produzione dell’energia: ad esempio, incentivare il passaggio ad una mobilità elettrica, facendo però in modo che l’elettricità derivi da fonti rinnovabili: in caso contrario si migliorerebbe, sì, la qualità dell’aria in contesti urbani, ma non si risolverebbe il problema climatico, per il quale è irrilevante dove le emissioni vengano prodotte. 

Il passaggio ad un sistema energetico sostenibile dovrebbe essere dunque veloce e, soprattutto, totale. Bisogna, comunque, essere consapevoli delle difficoltà logistiche e gestionali che questa transizione epocale pone. È certamente importante prendere coscienza dei problemi esistenti e cambiare i propri stili di vita a livello individuale, ma ciò che conta davvero è che la politica scenda in campo con degli interventi strutturali, cercando di rendere questa transizione sostenibile anche dal punto di vista sociale: non devono essere le classi più deboli a pagare i costi del cambiamento. 

La politica deve compiere uno sforzo immaginativo, visualizzando un futuro a lungo termine: gli scienziati e i giovani – che, non a caso, sono stati tra i primi a prendere coscienza del problema del cambiamento climatico – hanno infatti una prospettiva di ampio respiro, che visualizza periodi lunghi venti o trent’anni; i politici, al contrario, avendo vitale bisogno del consenso popolare, si concentrano sul presente, ipersemplificando i problemi e parlando alla pancia delle persone. Ma questo non è il modo migliore per affrontare i problemi di bene comune, come è quello del clima. Ecco perché mi do da fare, in quanto scienziato, per trovare un terreno comune di dialogo tra scienza e politica, al di là degli interessi particolari di questo o quel gruppo". 

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