Sono trascorse poche ore dal voto e le elezioni europee (che nel Regno Unito, come da tradizione, si svolgono durante la settimana) hanno già fatto la loro prima “vittima” politica. Si tratta di Theresa May, leader debole fin dall’inizio del suo mandato, ma che in questi tre anni aveva anche mostrato una certa resistenza, un po’ come quelle bambole che tornano ogni volta miracolosamente in piedi dopo le botte più tremende.
Questa volta però dovrebbe essere quella definitiva: il prossimo 7 giugno May formalizzerà le sue dimissioni dalla guida del partito conservatore. A spingerla sono state le pressioni del suo stesso gruppo parlamentare, dovute soprattutto allo scontento per il modo in cui sono state condotte le trattive per la Brexit e, da ultimo, anche alla fallimentare gestione della campagna per le europee. Elezioni a cui la Gran Bretagna non avrebbe nemmeno dovuto partecipare, e che invece rappresenteranno una débâcle memorabile sia per i tories che per i laburisti, ovvero i due partiti su cui si regge da tempo immemorabile la democrazia britannica. A incassare consensi – per aggiungere un tocco di paradosso, semmai ce ne fosse bisogno – è invece il partito del redivivo Nigel Farage, a cui i ritardi della trattativa stanno regalando una seconda giovinezza politica.
Perché però la May si dimette proprio adesso, dopo le operazione di voto ma prima dell’ufficializzazione dei risultati, i quali saranno resi noti a partire dalla sera di domenica? “Chiariamo innanzitutto che la May ha annunciato le dimissioni solo dalla guida del partito, ma rimarrà premier fino all’elezione del nuovo leader conservatore, che poi diventerà anche il nuovo primo ministro – spiega Giulia Bentivoglio, ricercatrice a Padova ed esperta di storia delle relazioni internazionali –. Trovo comunque tattica la scelta dei tempi; il 3 e il 4 giugno è in programma la visita di Donald Trump a Londra: probabilmente si vuole mantenere un minimo di stabilità di fronte a un alleato speciale, che con la Brexit potrebbe poi assumere rilievo ancora maggiore”.
Già da tempo si parlava comunque di un cambio al governo: “Evidentemente c’era un patto tra May e il 1922 Committee, che detto così sembra una cosa un po’ strana ma in realtà è il gruppo che comprende la maggior parte dei deputati conservatori: i Backbencher, che non hanno incarichi di governo o di portavoce”. Quelli che insomma da noi vengono chiamati Peones? “In realtà rappresentano lo zoccolo duro del partito: i loro rappresentanti gestiscono ad esempio le procedure per la sfiducia e per l’elezione del leader del partito”.
LEGGI ANCHE:
Adesso comunque cosa succederà? “Diciamo che entro il prossimo congresso del partito conservatore, che si terrà l’ultima settimana di settembre, dovrà sicuramente esserci un nuovo leader. In realtà le sensazione è che i tempi saranno più brevi. La scadenza più importante infatti è quella del 31 ottobre, ultimo giorno utile per tentare un accordo con l’UE: al nuovo premier si dovrebbe lasciare qualche settimana a disposizione per tentare questa strada. Sempre che sia scelto un primo ministro disponibile al dialogo, cosa niente affatto scontata”.
Per il momento infatti il candidato favorito è Boris Johnson, da sempre fautore della linea dura contro l’Europa, “Anche se è curioso notare come negli ultimi giorni sia stato particolarmente quieto e silente – continua Bentivoglio –; evidentemente subodorava la fine imminente di May e ha iniziato ad assumere un profilo più istituzionale”. L’effervescente ex sindaco di Londra dovrà vedersela con una dozzina di altri candidati: al ministro Rory Stewart si aggiungeranno probabilmente Jeremy Hunt, Michael Gove, Penny Mordaunt, Sajid Javid e Dominic Raab.
Ora la questione è se la resa della May porterà a un semplificazione della situazione politica, o se sarà un ulteriore passo nel caos. “Difficile dirlo – conclude Bentivoglio –, Il quadro potrebbe chiarirsi se i Tories eleggeranno un leaver, non solo favorevole alla Brexit ma addirittura a un no deal. In quel caso però bisogna vedere cosa succederà ai conservatori: già adesso molti minacciano di lasciare il partito se verrà eletto un personaggio divisivo come Johnson. Potrebbero quindi esserci elezioni anticipate, il cui risultato sarebbe ancora più incerto dopo l’affermazione del Brexit Party alle europee. L’unica cosa che al momento mi sento di escludere è un secondo referendum, come da ultimo aveva proposto proprio la premier dimissionaria”.
Per il momento May resta dunque al numero 10 di Downing Street: giusto per prendere gli ultimi colpi e di dar modo al partito di riorganizzarsi e decidere una strategia. In palio c’è la guida del governo di Sua Maestà, la quale forse in 66 anni di regno non si era mai trovata di fronte a una situazione tanto confusa.