SOCIETÀ

L’economia della biodiversità. Perché proteggere la natura significa proteggere noi stessi

«Tutti noi siamo detentori e gestori di beni» – beni che gestiamo al meglio delle nostre capacità, secondo le nostre convinzioni personali. Ma una gestione oculata sul piano individuale potrebbe non coincidere con il vantaggio collettivo, e così le nostre azioni potrebbero determinare «un gigantesco fallimento collettivo nella corretta gestione dei beni globali».

Così si apre la Dasgupta Review, l’imponente lavoro commissionato circa due anni fa dal Tesoro della Corona (il ministero delle finanze inglese) a Sir Partha Dasgupta, noto economista, Professor Emeritus all’università di Cambridge. Il tema: una revisione, su scala mondiale, dell’economia della biodiversità.

Dasgupta compie una scelta teorica molto importante, dalla quale discende l’impostazione dell’intero lavoro: come egli stesso afferma, infatti, la prospettiva adottata nel valutare la natura è dichiaratamente antropocentrica. È una scelta motivata: «Se accettiamo che la Natura debba essere protetta e sostenuta anche quando le attribuiamo un valore solo in relazione ai suoi utilizzi per i nostri scopi, potremmo avere ragioni ancora più forti per proteggerla e sostenerla qualora le riconoscessimo un valore intrinseco».

Coerentemente con questa decisione programmatica, nel corso del lavoro la natura viene valutata, quantificata, apprezzata soprattutto per i benefici che essa apporta all’essere umano. Tra questi, tuttavia, non vi è solo il valore economico – calcolato solitamente in termini di servizi ecosistemici, cercando di dare un prezzo agli innumerevoli benefici che la natura ci offre –, ma anche il valore estetico, psicologico, morale. Inserire la natura nelle valutazioni economiche è un esercizio non comune – quasi inedito – nel panorama dell’economia classica. Nel corso del Novecento, ricorda Dasgupta, il pensiero economico ha infatti inseguito un’utopia: la realizzazione di un mondo umano del tutto avulso e indipendente dalla natura, e la liberazione dell’uomo, grazie alla tecnologia, dal giogo dei vincoli naturali.

Uomo vs Natura: Impact Inequality

Il continuo e crescente prelievo di risorse dal mondo naturale, la fornitura (gratuita) di servizi ecosistemici, il progressivo degradarsi dei sistemi naturali sono stati a lungo trascurati nei calcoli macroeconomici. Il PIL (Prodotto Interno Lordo), principale strumento per misurare la crescita delle economie nazionali, ignora completamente il “bene natura”: «L’abitudine odierna di affidarsi al PIL per valutare le performance economiche è basata – sostiene polemicamente Dasgupta – su un’applicazione distorta dell’economia». Il PIL, infatti, tiene conto soltanto dei flussi di capitale, omettendo di calcolare la “ricchezza inclusiva”, l’insieme dei beni di una nazione. Misurando solamente i flussi, inevitabilmente vengono ignorati i mutamenti a cui i beni sono sottoposti: ad esempio, nel caso del capitale naturale, non si prendono in considerazione le conseguenze economiche del deterioramento degli ecosistemi, considerato una mera esternalità.

La crisi ambientale che si dipana, ormai da decenni, sotto i nostri occhi è stata sistematicamente ignorata in ambito economico: riconoscere la nostra dipendenza dalle risorse naturali e la nostra appartenenza alla natura è invece essenziale per garantire che lo sviluppo economico – a breve e a lungo termine – sia realmente sostenibile. L’economia della biodiversità, dunque, si propone di allargare il campo dell’economia, che dovrà riferirsi non più soltanto alla società umana, ma all’intera biosfera, della quale l’economia stessa non è che un sottoinsieme. Ciò significa, ad esempio, agire per ridurre il “deprezzamento” del bene natura: «La sostenibilità del nostro rapporto con la natura riguarda in ultima analisi tutte le funzioni della biosfera, e non solo la parte vivente di essa». Non possiamo, perciò, continuare a sostituire i beni naturali (acqua, suoli, biodiversità, servizi ecosistemici…) con le produzioni umane (infrastrutture, oggetti, denaro): si tratta di un’equazione fallace, che non riconosce come tali beni naturali siano non solo una risorsa, ma il fondamento stesso della sopravvivenza e del benessere delle società umane. Proteggere la natura, dunque, è nel nostro stesso interesse: qualsiasi aumento del benessere materiale sarà inutile, se queste basi saranno irreparabilmente distrutte».

Negli ultimi settant’anni abbiamo assistito a un rapido aumento del benessere, verificatosi di pari passo (in uno stretto rapporto di concausalità) con un altrettanto rapido incremento della popolazione mondiale. Gli esseri umani non sono mai stati sani, longevi e benestanti, né così tanti, come oggi. Ma tutto questo ha avuto un costo nascosto: insieme all’aumento del benessere e alla crescita della popolazione umana, infatti, si è verificato un repentino e drammatico deterioramento della salute degli ecosistemi. L’incipiente sesta estinzione di massa, il cambiamento climatico, l’alterazione dei cicli biogeochimici sono tutti sintomi di un generale squilibrio della biosfera, causato da una sola delle sue specie – la nostra. Secondo alcuni studi, si riporta nella Review, nel periodo 1992-2014 il capitale materiale e il capitale umano pro capite sono cresciuti del 13%, mentre il capitale naturale ha subìto un declino di circa il 40%.

Ciò che l’economia ha a lungo trascurato è l’intrinseca finitezza della biosfera – e dunque dell’economia, che della biosfera non è che una parte. Se le risorse sono limitate, la crescita e lo sviluppo materiale non potranno essere illimitati: ogni azione umana di prelievo di risorse e di rilascio di rifiuti ha un impatto sul mondo naturale, che è, appunto, un sistema chiuso. L’estensione della nostra domanda alla biosfera ha superato la sua offerta: ciò significa che preleviamo più risorse rispetto a quelle disponibili, e immettiamo più rifiuti di quelli che la biosfera riesca a smaltire. In questo modo, la nostra impronta ecologica sale vertiginosamente, e non si rispettano i tempi di rigenerazione del capitale naturale. Il divario, crescente, tra l’impronta ecologica globale e il tasso di rigenerazione della biosfera viene definito da Dasgupta Impact Inequality.

L'umanità si trova ora di fronte a una scelta: possiamo continuare su una strada in cui le nostre pretese sulla natura superano di gran lunga la sua capacità di soddisfarle su una base sostenibile, oppure possiamo prendere una strada diversa Sir Partha Dasgupta

Ridurre il divario

Per ridurre questo divario, avverte l’economista, è necessario che si trovino, in tempi brevi, soluzioni per:

  • «ridurre il consumo globale pro capite;
  • ridurre il tasso di crescita della popolazione;
  • aumentare l’efficienza con cui preleviamo risorse, le trasformiamo in prodotti e immettiamo rifiuti nella biosfera;
  • investire nella natura attraverso la tutela e il ripristino ecologico, così da far aumentare il “bene natura” e accrescerne il tasso di rigenerazione».

L’attuale sistema di produzione e consumo – ad affermarlo è uno dei maggiori economisti viventi – dovrà essere ripensato dalle fondamenta: a cominciare dai sistemi alimentari, che sono oggi la prima causa di perdita della biodiversità, e il cui impatto sarà ancora maggiore nei prossimi anni, a causa della crescita della popolazione e del conseguente incremento della richiesta globale di cibo.

Bisognerà, inoltre, individuare soluzioni che disinneschino la “bomba della popolazione”: è necessario investire in politiche di pianificazione familiare, nell’educazione e nell’empowerment femminile per far sì che i tassi di fertilità si riducano rapidamente e che le proiezioni ONU sulla crescita demografica (la previsione è che nel 2100 la popolazione mondiale raggiunga il tetto di 11 miliardi di persone) non si realizzino.

La crisi ambientale è un fallimento non solo economico, ma anche sociale: il suo avvento è stato facilitato dalla presenza di vincoli intellettivi e sociali che rendono difficile e controintuitiva la comprensione della portata delle nostre azioni. La natura è un bene mobile, invisibile e silenzioso, chiarisce Dasgupta: queste caratteristiche «rendono difficile osservare o verificare l’uso che si fa [delle risorse naturali], o le azioni che, anche inavvertitamente, possono indebolirle». Questo dà atto ad esternalità, cioè a conseguenze non volute dall’agente e non adeguatamente prese in considerazione, per le quali non è previsto che il responsabile ripaghi, in qualche modo, il danno causato.

La crisi ambientale, inoltre, è un fallimento istituzionale: proprio le istituzioni, infatti, sono state incapaci di gestire correttamente il bilanciamento fra gli interessi individuali di sfruttamento e l’interesse collettivo di tutela delle risorse naturali, dando così adito a quella che Garrett Hardin definiva la “tragedia dei beni comuni. Come questo disastro si sia potuto verificare è presto detto: «Poiché molti dei servizi di regolazione e manutenzione della nostra biosfera sono gratuiti – spiega Dasgupta nella sua Review –, ognuno di noi sperimenta (seppure a livello inconscio) un impulso a sfruttarli a tassi che, dal punto di vista del nostro bene collettivo, sono troppo alti. E questo equivale a scontare i benefici e gli oneri dei nostri discendenti a tassi che non tollereremmo se fossimo in grado di sceglierli collettivamente».

Uomo e Natura: Impact Equality

Sostituire al PIL la ricchezza inclusiva come misura del valore e dello stato di salute (anche in termini di sostenibilità) di un’economia è, ormai, un passo obbligato. Il PIL tiene conto della ricchezza materiale, ma non del benessere; queste due dimensioni, tuttavia, sono inscindibili. È vero che il PIL può, per un certo periodo di tempo, continuare a crescere indipendentemente dalle condizioni di contorno; tuttavia, «poiché la Impact Inequality è oggi così ampia a livello globale, la possibilità di una crescita del PIL globale generata da attività che causano il deprezzamento dei beni naturali per un periodo indefinito nel futuro, persino se aumentasse anche la ricchezza inclusiva globale, è altamente improbabile».

Benché il tempo non sia dalla nostra parte, non è troppo tardi perché noi, sia individualmente che collettivamente, decidiamo consapevolmente di cambiare strada. I nostri discendenti non meritano nulla di meno Sir Partha Dasgupta

Il cambiamento, sostiene Sir Dasgupta, non sarà semplice, ma è ancora possibile: si tratta di mettere in moto tre grandi transizioni. La prima: dovremo fare in modo che la nostra domanda di risorse naturali non superi la disponibilità, e al tempo stesso impegnarci perché tale disponibilità aumenti. La seconda: bisognerà modificare «le attuali metriche del successo economico in direzione di una maggiore sostenibilità». La terza: sarà necessario trasformare le istituzioni – soprattutto il settore della finanza e il sistema educativo – cosicché possano guidare e sostenere questi cambiamenti e renderli effettivi per le future generazioni.

Gli investimenti necessari per tutelare la natura, in tutte le sue forme, dovranno essere coraggiosi e di vaste proporzioni: quel che serve, suggerisce il professore di Cambridge, è un “piano Marshall” per la transizione ecologica. Bisognerà, in primo luogo, lavorare alla conservazione e al recupero degli ecosistemi, investendo sulla creazione di più ampie aree protette, sulla salvaguardia della biodiversità, sull’implementazione delle cosiddette nature-based solutions. Queste misure genereranno grandi risorse non solo nel favorire i servizi ecosistemici, essenziali per il buon funzionamento delle nostre società, ma contribuiranno anche a incrementare il capitale umano.

Parallelamente, bisognerà ristrutturare profondamente il sistema di produzione e consumo affermatosi nell’ultimo secolo, e forse rinunciare all’idea che l’attuale stile di vita occidentale possa essere mantenuto o, addirittura, esteso all’intera popolazione. Pensiamo, ad esempio, alle abitudini alimentari: «Le diete ricche di prodotti animali hanno un’impronta molto più alta di quelle basate su prodotti vegetali. […] Secondo alcuni studi, se le diete abbandonassero i prodotti animali sarebbe possibile nutrire l’attuale popolazione mondiale con appena il 50% dei terreni agricoli attualmente impiegati. Inoltre, alcune stime suggeriscono che non sarà possibile offrire a tutti diete ad alto impatto ambientale persino se l’intera superficie terrestre fosse convertita ad uso agricolo».

Sarà essenziale, inoltre, che vengano eliminate molte delle distorsioni presenti nel sistema economico, come i sussidi alle attività ambientalmente dannose (sussidi che oggi corrispondono a circa il 5-7% del PIL globale): in alcuni casi, infatti, è addirittura conveniente portare avanti attività inquinanti. Far rientrare le esternalità ambientali all’interno delle valutazioni economiche offrirà un contributo importante alla soppressione di simili inefficienti distorsioni. Una simile misura va inserita in un più ampio e ambizioso mutamento di prospettiva, che dovrà comprendere l’adozione di nuovi metodi di misurazione del successo economico, in cui concorrano alla valutazione le diverse componenti della ricchezza inclusiva: non solo il capitale materiale, ma anche quello umano e quello naturale. In particolare, «la contabilizzazione del capitale naturale è un passo necessario verso la creazione di una valutazione inclusiva della ricchezza».

Comprendere anche il più semplice tra i processi della biosfera può essere il primo passo per sviluppare un autentico amore per la natura Sir Partha Dasgupta

Infine, bisognerà ripensare il ruolo e la struttura delle nostre istituzioni, che dovranno guidare la società nel percorso verso la costruzione di un nuovo rapporto con il mondo naturale: «Delle istituzioni efficaci sono la base su cui potremo ricostruire il nostro rapporto con la natura e a cui potremo affidarci per la gestione dei nostri beni». Accanto a istituzioni forti, in grado di guidare il cambiamento, dovranno però esservi cittadini responsabili: a noi cittadini, infatti, spetta il compito di pretendere il cambiamento e di modellarlo sulla base delle nostre convinzioni e dei nostri valori.

Per questo motivo l’educazione giocherà un ruolo essenziale: bisogna fare in modo che ogni cittadino recuperi – sia come individuo, sia in quanto membro di una più ampia comunità – il senso della propria appartenenza al mondo naturale, andato perduto nella cultura antropocentrica in cui siamo immersi. «Se vogliamo apprezzare il nostro posto nella natura – sostiene Dasgupta – dobbiamo educare noi stessi. Solo allora cominceremo ad apprezzare le infinite meraviglie dei processi e delle forme della natura». Ad ogni livello di educazione, suggerisce l’economista, dovrebbe esservi un’attenzione speciale alla conoscenza della natura: tutti dovrebbero avere accesso a nozioni basilari di biologia e di ecologia, perché solo attraverso la conoscenza della complessità della natura se ne può cogliere la bellezza, e comprendere l’importanza della sua tutela.

Il valore della natura

La valutazione della natura in termini di prezzo, valore economico, servizi e benefici condotta da Sir Partha Dasgupta nel corso della Review non rivela, a ben guardare, un intento meramente utilitaristico. Il professore di Cambridge, al contrario, sottolinea come il valore economico – seppur, come abbiamo visto, così complesso, articolato ed essenziale per le società umane – non sia che una minima parte del valore della natura. Essa, infatti, ha valore in sé, e anche per questo è giusto che noi esseri umani, una fra milioni di specie viventi, riduciamo le nostre pretese nei confronti del mondo naturale.

«La biodiversità non ha solo un valore strumentale, ma anche un valore intrinseco, forse persino morale. Ciascuno di questi valori è arricchito dal fatto che riconosciamo di essere parte integrante della natura. Separare la natura dal pensiero economico significa ritenersi esterni alla natura stessa. La colpa non è dell'economia, ma del modo in cui abbiamo scelto di praticarla».

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