SOCIETÀ

Liberaldemocrazie, futuro a rischio

In fondo, scrive Alex de Waal, “la prima parte del XXI secolo è il miglior momento della storia per vivere” (Mass Starvation. The History and Future of Famine, Cambridge 2018). E le parole dell’antropologo culturale britannico non valgono solo per l’Africa, di cui è considerato uno dei massimi esperti. Dal punto di vista della salute, della nutrizione e dell’educazione, l’umanità non è mai stata meglio: anche in Occidente, pur con tassi di sviluppo molto inferiori rispetto a quelli di un tempo. Persino le disuguaglianze sembrano diminuite, se è vero che tra il 2003 e il 2013 il coefficiente di Gini, vale a dire lo strumento più usato in materia, è sceso da 68,7 a 64,9.

Perché allora esplodono l’insicurezza e il disagio, diffondendosi proprio in quei Paesi che del mondo contemporaneo sono considerati i fulcri? Perché persino le democrazie liberali più antiche sembrano cedere di fronte ai cosiddetti populismi? È il tema sviluppato dallo storico Andrea Graziosi, recentemente ospite dell’università di Padova, nel libro Il futuro contro. Democrazia, libertà, mondo giusto (Il Mulino 2019).

La crisi, secondo Graziosi, non coinvolge tanto del paradigma democratico in sé quanto la sua accezione liberale, che dà uno spazio particolare ai diritti degli individui e delle minoranze, e corrisponde a quella dell’Occidente come modello economico e culturale. Un sistema che, esattamente come il comunismo negli anni ’80 – secondo il politologo Marc Lazar, intervenuto alla presentazione del libro – “sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva”.

Intervista ad Andrea Graziosi e Marc Lazar

Il volume passa in rassegna le cause del malessere, dando un ruolo di primo piano al fattore demografico: “In assenza di immigrazione, almeno nei paesi ‘avanzati’ oggi le popolazioni invecchiano e si riducono – scrive Graziosi –, restringendo i mercati, modificando la struttura della domanda, e spingendo verso un calo della produttività umana che solo una migliore istruzione e il miglioramento tecnologico possono compensare”.

Società sempre più anziane e quindi inevitabilmente meno ricche, strutturalmente reazionarie, naturalmente più inclini a guardare al passato piuttosto che a costruire il futuro.  “Il moderno non è vitale” scrive Graziosi (p. 48): non lo è stato nella versione socialista, dal cui collasso si celebrano 30 anni, ma nemmeno in quella tardocapitalista. Gli incredibili balzi di produttività e di benessere si esauriscono nello spazio di una generazione, se è vero che già alla fine degli anni ’50 i problemi erano già visibili in nuce, così come oggi lo sono nelle aree più in crescita del pianeta. Per questo gli Stati sviluppati sono continuamente costretti ad attrarre risorse, umane e materiali, dai Paesi più poveri: già nel 1915 il classicista e politologo britannico Alfred Zimmern parlava di industrialized and largely migratory democracies.

Non solo: la presenza nello spazio pubblico di comunità sempre più numerose ed eterogenee mette anche in discussione una delle caratteristiche dello Stato moderno, così come esso è nato e come lo sconosciamo. Questo infatti nasce proprio dall’aspirazione – vuoi dal mito – a rappresentare un solo determinato popolo, spesso reso omogeneo dal potere con ogni mezzo, compresi quelli più violenti. Si dà invece il caso, sempre secondo Graziosi, che i centri urbani globalizzati siano oggi “simili per struttura a quei territori mistilingue e plurireligiosi che, come sanno bene gli studiosi dell’Europa centrale e orientale, o del Medio Oriente, hanno costituito uno degli ambienti meno favorevoli, e spesso direttamente ostile, allo sviluppo della democrazia liberale”.

Il moderno non è vitale Andrea Graziosi

Parole coraggiose per uno studioso laico e certamente non conservatore, che però non chiude gli occhi a una società sempre meno solidale e sempre più sfilacciata. Anche nelle reti familiari e nel rapporto tra i sessi, se è vero che tra le ragioni dell’ascesa dei populismi Graziosi individua anche un certo “risentimento maschile” scatenato dalla messa in discussione dei ruoli tradizionali.

Quasi a mitigare un quadro altrimenti preoccupante, lo storico romano non rinuncia nel finale a una pars costruens. Occorre  una ridefinizione delle priorità: più investimenti nella scuola e nella formazione, rilanciando anche una buona “istruzione professionale terziaria di massa” che preservi e nel caso recuperi i grandi saperi artigianali e industriali. Bisogna governare un’immigrazione che porti energie nei nostri sistemi esangui, senza rinunciare a investire massicciamente sui giovani e sulle famiglie con figli, invertendo l’attuale sperequazione a favore dei più anziani.

Soprattutto però è necessario un cambiamento di narrativa, ovvero un recupero della dimensione collettiva e comunitaria del destino nazionale, che una volta caratterizzava anche i partiti e le posizioni politiche di sinistra. Perché, Graziosi sembra dirlo a più riprese, da sola la nottata non passa. E aspettare o nascondersi lo stato delle cose serve solo a far peggiorare la situazione.

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