SOCIETÀ

L’UE ne fa trenta. Portati non benissimo

Il 1° novembre 1993 entrava in vigore il trattato di Maastricht: dalle Comunità Europee nasceva l’Unione Europea con il suo inno, una bandiera, confini esterni e – in prospettiva – una moneta. Già dal nome un tentativo di andare oltre l’approccio funzionalista ideato da Jean Monnet verso una direzione più federalista più consona agli ideali di Altiero Spinelli. Tentativo che però, a distanza di trent’anni, assieme agli innegabili successi lascia spazio anche a diversi dubbi e perplessità.

“Già nella distanza tra la data della firma, il 7 febbraio 1992, e quella dell'entrata in vigore si ritrova tutta l'ambiguità del giudizio storico su questo trattato – spiega a Il Bo Live Elena Calandri, docente di Storia delle relazioni internazionali presso il Dipartimento Spgi dell’università di Padova –. In questo breve lasso di tempo si esaurisce infatti la fase economica positiva che aveva accompagnato la fine degli anni ‘80 e la caduta del muro, mentre l'Europa occidentale e in particolare Italia e Gran Bretagna si ritrovano sotto attacco dei mercati finanziari internazionali. Così lo spirito ottimistico che aveva accompagnato la firma, o quantomeno buona parte dei negoziati, sul finire del ’92 si è già largamente spento, e non solo per ragioni economiche. Se nella guerra del Golfo gli Europei dimostrano in qualche modo una certa compattezza, anche se il loro ruolo è molto marginale, c'è un'altra situazione internazionale che invece li colpisce direttamente e rivela tutta la debolezza e la fragilità dell'Europa post guerra fredda. La crisi jugoslava, che esplode tra il 1990 e il 1991 e che accompagna la genesi del trattato fino alla firma, ha sicuramente un’enorme influenza nello spegnere l'entusiasmo”.

Cosa cambia nel passaggio dalla CEE alla CE e infine all’UE?

“Maastricht cambia le istituzioni e l'andamento dell'integrazione europea: dà avvio all'unione economica e monetaria che porterà all'euro, crea la cittadinanza europea e aggiunge una dimensione politica a un processo che fino a quel momento era stato prevalentemente di carattere economico e commerciale. Si tratta dunque un cambio qualitativo importante; allo stesso tempo peròall'indomani della firma del trattato emergono anche critiche molto forti”.

Che genere di critiche?

“Da un lato il documento appare estremamente tecnico, negoziato com’è in buona parte da funzionari dei ministeri del bilancio e delle finanze, delle banche centrali e della stessa Commissione Europea con uno scarso coinvolgimento degli organi rappresentativi: il concetto di ‘deficit democratico’ trova proprio in Maastricht uno dei suoi momenti simbolici. Allo stesso tempo il testo viene accusato di riflettere gli interessi dei mercati, di essere cioè poco attento alla dimensione sociale che fino ad allora è sempre stata un elemento di forza del cosiddetto modello europeo. Possiamo infine aggiungere anche una reazione che potremmo definire protosovranista, che anticipa in qualche modo la rivendicazione oggi così diffusa contro ogni cessione di sovranità a favore di istituzioni internazionali, accusate di essere distanti dal popolo e dai suoi interessi”.

Che effetto hanno questi giudizi?

“Da un punto di vista concreto ci sono difficoltà in alcuni Paesi durante il processo di ratifica, con i casi tipici della Francia e della Danimarca. Nella prima il trattato viene sì approvato con referendum, ma con una maggioranza minima (il cosiddetto ‘petit oui’), mentre in Danimarca questo sarà bocciato e dovrà essere rinegoziato. Copenaghen otterrà così il cosiddetto opt out da alcuni capitoli del trattato, aprendo la via a un'idea di unione a geometria variabile che fino a quel momento era stata spesso evocata, ma mai concretizzata”.

Oggi sono prevedibili ulteriori evoluzioni dell’UE dal punto di vista politico o istituzionale?

“In trent’anni sono cambiate molte cose, tanto dal punto di vista politico quanto da quello istituzionale, ci sono stati nuovi importanti trattati ma anche grandi fallimenti. È noto che il trattato di Lisbona, sul quale oggi si basano le istituzioni e il funzionamento dell'integrazione europea, sia il risultato del grande fallimento della ricerca di un trattato costituzionale; il quale peraltro non era poi così diverso nei contenuti dal testo attuale: avrebbe però voluto trasmettere il senso di una svolta politica epocale che, una volta di più, non è stata accettata dalle opinioni pubbliche di alcuni Stati membri. Per questo l'impressione è che oggi non ci sia molta voglia di affrontare nuove modifiche dei trattati. La conferenza voluta da Macron sul futuro dell'Europa, tenutasi durante la pandemia e quindi in condizioni tutt'altro che favorevoli, ha rappresentato il tentativo di riflettere sulle prospettive future, ma la grande maggioranza delle opinioni espresse è che nei trattati esistenti ci fosse già spazio per progressi e approfondimenti, senza bisogno di mettere mano a una riforma più ampia. Così in questi anni, piuttosto che ipotizzare improbabili trasformazioni, si è preferito lavorare intorno a concetti come quello di autonomia strategica”.

Quali sfide l’UE ha di fronte oggi?

“Recentemente il covid ha favorito una serie di iniziative importantissime: in particolare il Next Generation EU, questo enorme investimento di risorse che doveva servire a trainare l'Unione Europea fuori dallo stallo e dalla crisi, anche se oggi assistiamo alla fase del ritorno al patto di stabilità e crescita. Un altro importante processo aperto è quello dell'allargamento ai Balcani occidentali, intorno a queste sfide si giocano forse le principali partite per il futuro dell’Europa. L’ingresso a partire del 2004 dei Paesi dell'ex blocco orientale ha certamente dato all'Unione Europea un potenziale di impatto molto maggiore, complicando però allo stesso tempo enormemente il dibattito politico interno, anche al di là del fatto che in alcuni di questi Paesi si siano affermati negli ultimi anni governi fortemente nazionalisti o in certi casi addirittura autoritari, che non hanno certamente molto a che fare con quella filosofia di affermazione della democrazia liberale che ha caratterizzato l’UE fin dalla sua nascita. In questo senso possiamo sicuramente dire che l'Unione Europea di oggi è qualcosa di molto, molto diverso da quella del 1993”.

Eventi come la guerra in Ucraina stanno ancora una volta cambiando il volto delle istituzioni europee?

“L'esito del conflitto è certamente decisivo per il futuro dell'Europa: mantenere una sufficiente coesione interna sul piano militare ma soprattutto sul piano politico è la prima grande sfida per i governi e i popoli europei. La seconda è legata alla risposta alle difficoltà economiche che stiamo vivendo, in parte determinate dalla stessa crisi ucraina ma in parte dovute anche all'eredità dell'ultimo periodo, riuscendo a ridare vitalità a un modello di società europea che protegga i diritti sociali e la qualità della vita della popolazione. Non credo che oggi gli obiettivi di global Europe, molto in voga una quindicina d'anni fa, siano ancora una preoccupazione per le opinioni pubbliche interne, né che l'Europa in questo momento storico sia in grado di proiettare la sua influenza all'esterno. Il che non significa che non dobbiamo preoccuparci di avere una politica estera comune che sia positiva, multilaterale e utile alla promozione della pace: credo semplicemente che questo oggi non sia né una preoccupazione particolarmente diffusa, né – ahimè – qualcosa di realistico da attendersi”.

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