CULTURA

“Mente e cervello – Una storia filosofica e scientifica”/ 3

La storia della ricerca sul cervello è un appassionante intreccio di idee, correnti di pensiero, dispute, e straordinarie scoperte, che si sviluppa a fianco della storia del resto della nostra cultura. Vive di scambi con le arti e con le altre scienze, e si arricchisce di continuo grazie a esperienze diverse. Per esempio, quelle di malattia. Succede dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, quando si comincia a capire che lo studio della disfunzione può aprire una porta anche sulla funzione.

Matthew Cobb nel suo poderoso “Mente e cervello” racconta bene come questo sia anche l’inizio di una nuova contaminazione che si farà sempre più feconda nel corso del Novecento: quella con la futura scienza informatica. Siamo vicini al cambiamento radicale delle metafore che legano macchine e cervello, perché siamo vicini al radicale ripensamento su che cosa, entrambe, siano. 

Nella seconda metà dell’Ottocento si cominciò infatti a pensare di strutturare teorie sul funzionamento dell’intero cervello e di legarle all’esperienza clinica. Una parola chiave fu “inibizione”, l’altra fu “controllo”: l’equilibrio del sistema nervoso sembrava poggiare tutto lì, perché alterazioni indotte da farmaci o da malattie sembravano insistere sulla capacità del cervello di contenere le proprie pulsioni e di equilibrare le sue funzioni.

L’idea di inibizione e controllo sarà cruciale da adesso in poi. Nell’Ottocento orientò anche il lavoro di due grandissime figure come Sigmund Freud e di Ivan Pavlov, che però non costruirono teorie in grado di influenzare la nostra comprensione del cervello. E fu la base dei lavori di Hermann von Helmholtz, che capì, soprattutto tramite esperimenti, che il cervello non è solo uno spettatore del mondo ma è capace di interpretazioni, anche inconsce, di quello che percepiamo. Ma che cosa significasse davvero dipendeva dalla materia del cervello stesso: di che cosa è fatto, insomma? La domanda ne generò presto un’altra: il cervello è una rete unitaria, o è un insieme di cellule come (lo si era appena scoperto) gli altri organi?

Dal grande reticolo alla scoperta delle sinapsi

Stiamo entrando nel Novecento, gli scienziati comunicano sempre più velocemente e si sta per fondare l’istituzione tanto ambita del premio Nobel

Il dibattito sulla struttura del cervello cominciò ad animarsi quando Camillo Golgi, serendipità, scoprì il modo di colorare i neuroni, e quindi di vederli. Certo: non si vedevano bene, cellula per cellula, e Golgi continuò a pensare, come tanti, che fossero fusi tra loro in un grande unitario reticolo. Ma la sua tecnica fu perfezionata dallo spagnolo Santiago Ramon y Cajal, che per primo, al microscopio, trovò le prove della separazione tra neuroni e della loro funzione e anche della direzionalità della corrente nervosa. La sua idea trionfò: nacquero le parole “neurone” e “assone” e l’anziano Golgi se la prese moltissimo, tanto da fare polemica persino durante l’assegnazione congiunta del loro Nobel. 

La metafora che Cajal scelse per spiegarsi fu, come sempre, legata alla sua epoca e alla sua temperie: il cervello funziona come un telegrafo. Ma non gli era del tutto sufficiente, perché Cajal intuiva la plasticità neuronale. Qualche anno dopo ci fu chi allora usò quella, più appropriata rispetto alle conoscenze dell’epoca, di centralina telefonica. Ma poi il dibattito si spostò sulla natura delle connessioni nervose, Charles Scott Sherrington inventò la parola “sinapsi” e ne intuì la funzione complessa. Erano connessioni elettriche o chimiche? Ci vollero decenni (e parecchie dispute, sogni rivelatori, sgambetti tra scienziati, e anche esperimenti) per risolvere la questione e per far accettare il ruolo dei neurotrasmettitori nella trasmissione nervosa. A questo punto, le metafore tecnologiche non reggevano più.

Il Novecento cambia tutto

Non solo la scienza e la tecnologia: cambiano anche la letteratura e le arti, il ruolo del grande pubblico, la volontà da parte degli scienziati di condividere le proprie scoperte. 

Nasce in teatro la parola robot, la riprende il cinema e poi arriva alla scienza, producendo fascinazione e paura, e riportando in auge il vitalismo nella filosofia. In questo humus culturale si comincia a pensare di copiare con le macchine il funzionamento del sistema nervoso e si intuisce che un elemento cruciale sta nell’interazione della macchina con l’ambiente e nella possibilità di farle cambiare comportamenti a seconda delle proprie percezioni. Nessuna delle tante macchine prodotte in questo periodo era davvero un buon modello di cervello, e poi i neurofisiologi stavano capendo molte cose nuove sulla complessità del nostro sistema nervoso.

Però era un inizio.

Un personaggio chiave fu Edgar Adrian, poi premiato col Nobel, e uno dei suoi meriti principali fu quello di aver introdotto l’idea che i neuroni utilizzano codici e si scambiano informazione. Poco dopo fu la nascita della cibernetica, con Warren McCulloch, Walter Pitts, Norbert Wiener e tanti altri a importare in biologia i concetti della logica, a spostare l’attenzione sui processi e non più sulle regioni anatomiche, e a dare centralità all’idea di retroazione (o feedback). Che i loro contributi fossero o meno soprattutto aria fritta (come sostiene l’autore di questo libro e come pare che sostenesse anche Alan Turing), è innegabile che a questo punto lo studio della mente qui prese un’altra strada. Non più il cervello come macchina, ma le macchine come cervello.

Anche perché il cervello aveva mostrato una complessità profonda, e per quanto possa essere considerato assimilabile a una macchina computazionale stavamo superando del tutto l’idea che fosse “come una macchina”. Quale macchina, inventata da chi?

Arrivano le neuroscienze, ma la strada è ancora molto lunga

Così Cobb chiude quello che definisce passato, e ci porta al presente. Abbandoniamo la metafora del computer, dice: ma a favore di che cosa? I progressi che abbiamo fatto nel corso di un secolo sono stati enormi, ma nessuno ha risolto la questione: non sappiamo nemmeno se abbiamo gli strumenti teorici necessari ad affrontarla. Quello che però abbiamo di nuovo negli ultimi sessanta, cinquant’anni, è un formidabile quadro di riferimento e una parola per indicarlo: neuroscienze.

Il quadro di riferimento parla di un cervello che produce e contiene rappresentazioni simboliche del mondo su cui agisce come una macchina computazionale. Una macchina computazionale, sì, ma diversa da qualsiasi macchina abbiamo progettato finora, immersa in un complesso di comunicazioni chimiche. Su di questo lavorano ogni giorno decine di migliaia di ricercatori di tutto il mondo che oggi hanno a disposizione strumenti e tecniche nuove. Nonostante questo, alcuni grandi temi ritornano o sono sempre rimasti lì, e nessuno li ha ancora del tutto risolti.

Prendiamo la memoria: nel corso della seconda metà del Novecento c’è stato chi ha sostenuto che fosse diffusa nel cervello e chi, portando come prove interventi chirurgici sperimentali, ha cercato di localizzarla. Intanto, venivano localizzate con sempre maggiore precisione alcune nostre funzioni molto basilari. E si capiva che lei, la memoria, non assomiglia per niente a quella di un hard disk: è fallibile, malleabile, si attiva per percorsi diversi. E i circuiti che stanno dietro di lei e delle altre funzioni (anche apparentemente semplici) possono essere descritti da connettomi complessi che non riescono mai ad arrivare al fondo della questione. Nemmeno se studiamo cervelli composti di poche cellule, come quello del verme.

Ecco anche perché i grandi progetti scientifici sul cervello, primo fra tutti lo Human Brain Project, che lavora dal basso senza avere una teoria del cervello ma pretendendo di costruirla man mano che ne simula il funzionamento, hanno concluso davvero poco. Anche la farmacologia, che offre numerose ed efficaci (quasi sempre) soluzioni alla malattia mentale, in realtà non è riuscita ad andare oltre la risposta momentanea ed empirica offerta al singolo problema. Per non parlare delle neuroimmagini, delle quali non è ancora possibile fornire interpretazioni metodologicamente pulite, inferenze chiare, anche perché la plasticità cerebrale interviene ogni volta a complicare le cose e a spostare le presunte sedi delle singole funzioni apparentemente localizzabili. 

Infine, e soprattutto, la coscienza. Su questo campo è tornata alla grande anche la filosofia, e spesso gli scienziati si sono messi a fare speculazioni astratte, oltre che esperimenti di tutti i tipi, ma è decisamente improbabile che arriveremo a una risposta unica seguendo una unica via. Del resto, fare previsioni è vacuo e probabilmente perdente: l’autore conclude dicendosi però ottimista e laico, tanto da proporre di non escludere nessuna delle piste battute finora.

L’impresa più difficile nella quale l’uomo si sia imbarcato è ancora tutta lì: ci siamo persi nei dettagli, ma non vediamo ancora nemmeno da lontano la possibilità di una sintesi unitaria ed efficace che ci spieghi chi siamo, come pensiamo, e perché ce lo chiediamo.

Le prime due parti di questa storia e filosofia del cervello, seguendo le pagine del libro di Matthew Cobb sono disponibili qui:

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