Nel diciassettesimo e diciottesimo secolo il cervello diventa finalmente un oggetto importante. Lo racconta bene Matthew Cobb, nella sua storia filosofica e scientifica di mente e cervello: il momento cruciale è lì, quando, dopo secoli, finalmente accettiamo che quella massa grigia e molliccia che custodiamo nella scatola cranica abbia un ruolo centrale nella nostra vita. Il cervello diventa per tutti la sede della nostra anima, a volte delle nostre emozioni e persino dei nostri pensieri. E a discuterne, sono non solo scienziati ma anche filosofi, i quali per certi versi hanno il gioco facile: il principale e il primo è ovviamente Cartesio. Da qui in poi, è tutto un fiorire di metafore, la maggior parte delle quali meccaniche, e di dispute tra studiosi che ci portano all’età moderna senza in realtà risolvere i grandi interrogativi di fondo su che cosa sia la mente, che cosa sia la coscienza. A fianco di avanzamenti scientifici enormi, il cervello resta un oggetto misterioso che chissà se avrà voglia di svelarci tutti i suoi misteri.
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Tra res cogitans e res extensa, i dibattiti sulla materia pensante
Ma Cartesio è importante ancora oggi. Perché risolse (in via teorica) la querelle tra sede del pensiero e cuore segnando per la prima volta una scissione tra il corpo fisico e la mente, immateriale, che lì risiede. Cartesio in particolare identificò un punto esatto del cervello (la ghiandola pineale) a cui attribuì l’interazione tra mente e corpo, tra res cogitans e res extensa, attraverso la creazione di “spiriti animali” a partire dal sangue. Questi spiriti animali, continuava Cartesio, si muovono attraverso i nervi lungo tutto il corpo, e la forza che li spinge è simile alla forza idraulica. Sì perché anche il filosofo francese aveva la necessità di paragonare la fisiologia alle macchine motrici del suo tempo, e scelse di riferirsi alle fontane dei giardini reali.
Ma tra energia idraulica (di Cartesio) e il vecchio pneuma di tradizione galenica non c’era una gran differenza e nel tempo le prove sperimentali riuscirono ad archiviare entrambe. Il problema però, per il fronte degli scienziati, continuava a sussistere: la dissezione del cervello ne mostrava la struttura, ma la funzione era tutto un altro paio di maniche, e nessuno riusciva a capirla davvero. L’anatomista danese Niccolò Stenone, che nel 1665 inaugurò, durante una lezione pubblica, l’uso delle metafore sul cervello come “macchina pensante”, fu forse l’unico ad ammettere la propria ignoranza.
Intanto tra i filosofi si accesero i dibattiti, soprattutto sull’esistenza di una “materia pensante”: ne presero parte Spinoza, Leibniz, Locke (che era anche medico). Mentre tra i medici va segnalato Julien Offray de la Mettrie che oggi è stato pressoché dimenticato ma ebbe una enorme influenza ai suoi tempi: la sua idea era che il funzionamento del corpo e della mente sono spiegabili con la materia, e questo dette il via alle metafore esplicite sulle macchine e gli automi (che al tempo andavano molto di moda), con ricadute in tutti gli ambiti della cultura del tempo fino alla (ebbene sì) pornografia.
A cambiare di nuovo tutto fu l’entrata in scena di un nuovo fenomeno, eccitante e spaventoso: l’elettricità.
Funzioni localizzate o una mente diffusa?
L’interesse per l’elettricità era cresciuto a partire da metà Settecento: spettacoli e spettacolini per scienziati e pubblico di passaggio erano sempre più frequenti e il nesso tra quella forza invisibile e l’analoga misteriosa forza che muove il nostro corpo fu evidente.
Ma gli spiriti animali erano di natura elettrica? E se scorrevano solo lungo i nervi come potevano muovere tutto il corpo? Gli esperimenti di Luigi Galvani con le rane, quelli di suo nipote, il macabro Giovanni Aldini, coi cadaveri, quelli di Volta con la stimolazione dei sensi, e quelli di tanti altri in giro per l’Europa attirarono molte attenzioni. Anche quelle dei letterati, ed ecco che nacque il long seller “Frankenstein”.
Nell’Ottocento le cose diventeranno sempre più scientifiche: la chimica e la fisica permetteranno alla medicina di fondare la fisiologia moderna e Hermann von Helmoltz riuscirà per la prima volta a misurare la velocità di conduzione dell’impulso nervoso e a definire il potenziale d’azione. Abbandonata l’idraulica, la metafora a cui ci si riferirà diventerà quella della rete del telegrafo: la novità tecnologica di quel tempo. Ci sarà anche chi comincerà a pensare alla possibilità di costruire macchine pensanti: se il cervello è materia pensante e usa l’elettricità, perché no?
Ma accanto alle ricerche sulla forza che animava il sistema nervoso, arrivarono quelle sulla distribuzione delle sue funzioni, problema annoso. Due idee erano dominanti e contrapposte: quella per cui ogni funzione ha una sede precisa nel cervello, e quella per cui la mente è diffusa nel cervello così come le sue diverse esplicitazioni.
La prima idea dominò a lungo il panorama culturale europeo. Messa nero su bianco a fine Settecento dal medico viennese Franz Joseph Gall, conquistò un po’ tutti: da Karl Marx alla regina Vittoria, da Charlotte Bronte ad Arthur Conan Doyle, da August Comte a Mark Twain. E ovviamente molti medici, soprattutto in ambito anglosassone. L’idea di Gall, e poi del suo allievo rivale Johann Spurzheim, era che le funzioni cerebrali (ventisette, di cui solo otto esclusivamente umane) risiedessero in parti precise del cervello, più o meno “gonfie” a seconda delle attitudini personali, tanto da poter essere palpate da fuori sul cranio.
A partire dagli anni venti dell’Ottocento queste teorie cominciarono a vacillare sotto i colpi delle scienze sperimentali. Il principale degli scienziati che si dedicò a fare ricerca sperimentale sul cervello (usando animali, e la precisazione non è peregrina perché ci furono anche esperimenti raccapriccianti su cavie umane inconsapevoli) fu Marie-Jean-Pierre Flourens, che alla fine rifiutò con decisione la teoria della suddivisione anatomica della corteccia in parti funzionalmente distinte e affermò che invece la sede dell’intelligenza umana era una struttura unitaria (unica eccezione su cui era disposto a parlare di aree erano i comportamenti più semplici, fisiologici o motori).
Questa diventò la teoria dominante fin quando non arrivarono gli studi sul linguaggio a ribaltare la questione, dando di nuovo ragione a chi localizzava le funzioni del cervello. Gli studi di Paul Broca in particolare furono in questo dirimenti: probabilmente lo furono anche quelli di un certo Marc Dax che fece le stesse scoperte di Broca, prima di lui, ma senza lasciarne traccia, o almeno così sosteneva il figlio (una delle dispute più sanguinose della storia della medicina).
Broca, senza nessuna intenzione di tornare a dare smalto alle superate teorie di Gall, e non senza qualche difficoltà, osservò diversi pazienti con lesioni cerebrali a sinistra e analoghi problemi di produzione del linguaggio. E si trovò a rilevare la presenza di una (singolarissima, forse unica) asimmetria funzionale tra i due emisferi.
Altri esperimenti, su uomini e animali, e casi clinici eclatanti come quello del celebre Phineas Gage, portarono a risolvere la diatriba in una maniera oggi prevedibile, ma allora sconcertante: qualcosa è localizzato, qualcosa no, dipende da quello che intendiamo per “qualcosa” e dall’importanza che gli diamo. In generale, e di nuovo, e forse come sempre, c’era solo da dichiarare la nostra ignoranza. Si entra così, con molto di nuovo ma senza una teoria condivisa su come funzioni il cervello e su che cosa sia la mente umana, nella modernità.