CULTURA

La morte secondo Shakespeare. Veleni, coltellate e cuori infranti

"Shakespeare capiva la morte in un modo che forse oggi ci sfugge. Scriveva in un'epoca in cui la vita era spesso breve e la morte un evento pubblico. Sapeva poco dei processi fisiologici che portano alla cessazione delle funzioni vitali, ma conosceva l'aspetto, il suono e l'odore della morte". Nel libro La morte secondo Shakespeare (Codice edizioni) la scrittrice e chimica Kathryn Harkup attraversa le opere del grande drammaturgo inglese scegliendo come filo rosso l'unico evento ineluttabile dell'esistenza di ogni essere umano, descrivendo avvelenamenti, coltellate, pestilenze, carestie e malattie nell'Inghilterra del XVI e XVII secolo.

Sembra difficile da credere, considerato l’argomento trattato e i numerosi dettagli splatter offerti al lettore, ma si tratta di un libro appassionante dal punto di vista scientifico, storico, culturale e, va detto, dettaglio non trascurabile, non lascia addosso alcun turbamento: ah, il potere del teatro e della buona divulgazione!

Al tempo di Shakespeare si usava far visita al capezzale dei moribondi e la morte era accettata e attesa, da un momento all'altro. Si assisteva all'ultimo respiro del malato (a differenza di quanto accade oggi, nel nostro tempo segnato da un fine vita riservato, protetto, controllato e sanitizzato). Si viveva meno e difficilmente si poteva sperare di superare i quarant'anni: la scienza non aveva ancora permesso di raggiungere risultati significativi, non aveva segnato svolte né ottenuto soluzioni per la salute traducibili in cure efficaci, fondamentali per conquistare tempo di qualità, per vivere di più e meglio.

Oltre la morte naturale, a complicare la situazione vi erano eventi imprevisti, violenti, pericoli sempre in agguato: condanne a morte, sanguinose battaglie sul campo, malattie di ogni tipo, infezioni causate da pessime condizioni igieniche, efferati omicidi. “La morte non era mai troppo lontana, in un modo o nell’altro. Non appena un pericolo si allontanava, spuntava una nuova minaccia", scrive Harkup, che aggiunge: "Ciò non significa che i nostri antenati fossero contenti di morire e che non facessero nulla per evitarlo. I malati venivano curati con medicine e terapie di vario tipo, i feriti venivano ricuciti dai chirurghi, e si facevano anche i primi tentativi di rianimazione di emergenza". All'epoca di Shakespeare esistevano due teorie legate alla salvezza di vite umane: la prima era quella basata sul sistema galenico degli umori che cercava l'equilibrio tra i quattro umori corporei - bile nera, bile gialla, flemma e sangue -, corrispondenti rispettivamente ai quattro elementi - terra, aria, fuoco, acqua-, la seconda era quella dello svizzero Paracelso, "che si basava sull'osservazione del paziente e sulla convinzione che tutti i fenomeni fossero riconducibili a una serie di processi chimici, sebbene il concetto di chimica fosse molto diverso da quello moderno. Paracelso sperimentò per primo l'uso medico di diverse sostanze create in laboratorio".

Tuttavia, i rimedi dell'epoca non offrivano reali benefici e anzi, molte volte, peggioravano condizioni già critiche. Le terapie non funzionavano granché, ma i medici (che ignoravano le cause di molte patologie) raramente venivano incolpati delle mancate guarigioni, anche quando le condizioni dei pazienti peggioravano fino ad arrivare alla morte. Insomma, "prima del XVIII secolo i medici avevano un impatto trascurabile sulla salute del paziente. Di rado riuscivano a evitarne la morte o anche solo a posticiparla. In alcuni casi, non erano nemmeno in grado di determinare con certezza se una persona era morta davvero". In questo quadro di precarietà esistenziale, legata a una salute sempre minacciata e sotto attacco, prendersi cura di sé e, in alcuni casi, evitare la morte, poteva risultare una impresa assai impegnativa.

Io lo so quando un uomo è morto, e quando è vivo Re Lear, atto V, scena 3

Omicidi, veleni ed esecuzioni

Pericoli e imprevisti di natura violenta, omicidi e condanne a morte si ritrovano in quasi tutte le opere di Shakespeare. Il drammaturgo conosceva bene i gusti del suo pubblico e costellava tragedie e drammi storici di agguati, esecuzioni, delitti. Qualche esempio: "Otello uccide Desdemona perché pensa che lei lo abbia tradito, Macbeth si apre la strada al trono falciando chiunque rappresenti un ostacolo" e i congiurati uccidono Giulio Cesare pugnalandolo ventitré volte. Partiamo dalla morte di Desdemona: Otello la soffoca, pensa sia morta ma, inizialmente, lei è solo svenuta, tanto che a un certo punto riprende conoscenza, prima di svenire di nuovo e infine morire davvero. Ma cosa è accaduto? Desdemona non muore per soffocamento, lo spiega Harkup: "Una possibile spiegazione è che la donna abbia sbattuto la testa durante la lotta con Otello. Non è necessario che il colpo sia stato particolarmente violento, dato che non c'è corrispondenza diretta tra la forza dell'impatto e la gravità della lesione: è più importante la zona colpita, perché alcune parti del cranio sono più fragili di altre". Tra gli assassini shakespeariani Otello rappresenta una eccezione perché subito confessa, a differenza di altri che cercano giustificazioni, tentano di far cadere la colpa su degli innocenti o provano a nascondere il delitto (Macbeth sistema i pugnali insanguinati accanto alle guardie addormentate di Duncan).

Il più famigerato assassino del canone shakespeariano è senza dubbio Riccardo III, descritto come "gobbo, spietato, perfido e malvagio - spiega Harkup - il vero prototipo del cattivo da pantomima". Compare nelle tre parti dell'Enrico VI prima di conquistare un dramma tutto suo. Sono undici gli omicidi che gli vengono attribuiti (se escludiamo quelli uccisi in battaglia). La verità è che Shakespeare era solito macchiare la reputazione di alcune figure storiche per perseguire le sue finalità, e Riccardo III, pur non essendo stato un santo, ne uscì profondamente segnato. Il Bardo ne esaspera difetti morali e fisici per trasformarlo nel perfetto malvagio.

Apriamo qui una parentesi per introdurre la potenza dei veleni, strettamente legati al tema del delitto. Shakespeare non ne ha una conoscenza specifica e cita un generico "veleno per topi" quando vuole riferirsi alle strategie di vendetta messe in atto da alcuni suoi personaggi: probabilmente si riferiva all'arsenico. La morte di Giovanni (Re Giovanni) è uno dei pochi casi di avvelenamento descritto nei dettagli. Il sovrano delira e accusa un forte bruciore, ha "strane fantasie" e il "petto arroventato", le labbra "riarse" e dice: "La cima del mio cuore è bruciata e sfilacciata". Harkup si interroga, non senza qualche difficoltà, sul tipo di veleno utilizzato, prendendo in considerazione il fosforo bianco (sconosciuto però ai tempi di Shakespeare), l'aconitina (che però non provocherebbe allucinazioni), la belladonna (il cui componente tossico, l'atropina, può causare anche allucinazioni realistiche, e quindi una combinazione di più veleni potrebbe essere la risposta). Molte sono le ipotesi, poi, relative al serpente dal veleno letale scelto da Cleopatra (Antonio e Cleopatra) per suicidarsi. Ma, su tutte le opere, il maggior numero di avvelenamenti si trova nell'Amleto, opera in cui è presente anche il tema del suicidio più che in qualsiasi altro dramma shakespeariano (celebre è la morte di Ofelia, per affogamento, descritta nei particolari).

Nell'Amleto sono almeno tre gli avvelenamenti, per un totale di cinque vittime. Il più noto è quello di Amleto il vecchio, rivelato dal suo fantasma: include il nome della sostanza usata, che però non esiste. "Mentre dormivo in giardino, com'era mia abitudine nel pomeriggio, nella mia ora sicura tuo zio venne furtivamente con una fiala di maledetto veleno [hebenon], e versò quel distillato pestilenziale nel cavo delle mie orecchie. Il suo effetto è talmente nemico del sangue umano da penetrare rapido come argento vivo attraverso le porte e le vie del corpo, dove con improvviso vigore, come gocce di acido nel latte, condensa e caglia in un attimo il sangue che scorreva sano". Hebenon ricorda la cicuta (hemlock), l'elleboro (hellebore), il giusquiamo nero (henbane) o l'ebano (ebony). Messo da parte per un attimo il mistero della sostanza letale scelta, la domanda che pone l’autrice è: si può uccidere qualcuno versandogli del veleno nelle orecchie? "Di solito i veleni vengono ingeriti o iniettati. Qualcuno può essere inalato o assorbito attraverso la pelle. Il canale uditivo non è una scelta ottimale, poiché è protetto dal cerume, che ostacola l'assorbimento di qualsiasi sostanza. Inoltre è relativamente povero di vasi sanguigni, che assorbono il veleno e lo diffondono nel corpo. Eppure, se vogliamo fidarci di Plinio (che nella Storia naturale fa riferimento a un preparato contro il mal d'orecchie a base di succo di giusquiamo, oppio, olio di rosa e altri ingredienti, ndr), la somministrazione di medicine nell'orecchio era una pratica più diffusa di quel che potremmo aspettarci, seppur priva di benefici e probabilmente piuttosto fastidiosa". 

A tradimenti e omicidi seguono condanne ed esecuzioni (non sempre, in realtà, qualcuno riesce a schivarle): nelle opere di Shakespeare sono tanti i condannati a morte, i personaggi muoiono giustiziati e le esecuzioni sono sempre cruente. "Le punizioni corporali e le pene capitali non sono più contemplate dalla giurisprudenza inglese, ma quattrocento anni fa erano piuttosto comuni". I delitti più gravi erano quelli contro il re o la regina e prevedevano l'impiccagione, lo sventramento o lo squartamento: nell'Enrico IV Vernon e il conte di Worcester vengono giudicati per tradimento, il primo è condannato e impiccato, sventrato, squartato, il secondo è condannato per decapitazione. Nel Tito Andronico per decapitazione e impiccagione muoiono in molti, ma vi sono esecuzioni ancora più crudeli: Chirone e Demetrio vengono sgozzati e poi trasformati in tortino, Aronne viene sepolto fino al petto e lasciato morire di fame. Il rogo era destinato agli eretici ed è la pena inflitta a Giovanna D'Arco: nell'Enrico VI, prima parte, viene bruciata sulla Place du Vieux-Marché di Rouen, ma l'esecuzione non viene rappresentata in scena perché troppo rischiosa in un teatro di legno. Nel libro, però, Harkup descrive nel dettaglio la morte sul rogo approfondendo i meccanismi del corpo per regolare la temperatura, i tempi con cui bruciano uomini e donne, le conseguenze provocate dall'inalazione di gas tossici. Si trattava di un metodo di esecuzione brutale, ma del resto nel XVI e XVII secolo lo erano tutti. Il più diffuso era l'impiccagione: così muore Bardolph nell'Enrico V, condannato per aver rubato un'immagine sacra in una chiesa. Prima del 1892 le impiccagioni avvenivano per caduta breve, con il condannato issato su un carro (o su una scala), sostegno poi rimosso una volta annodata la corda al collo. "La causa di morte [...] può sembrare ovvia: asfissia per il mancato apporto di ossigeno ai polmoni. In realtà ci sono diversi fattori che possono contribuire al decesso: è difficile che la trachea collassi, dato che è costituita da anelli di cartilagine semirigida, ma possono esserci altri impedimenti al passaggio dell'aria. Lo stringimento del cappio può provocare lo spostamento della lingua verso l'alto e la conseguente ostruzione dell'ingresso della trachea". Alla mancata ossigenazione dei polmoni, si aggiunge l'alterazione della quantità di sangue che raggiunge il cervello e che può avere conseguenze letali. Considerata la gran quantità di atroci dettagli presentati fin qui, limitiamoci a citare rapidamente la forca, riservata alle persone di umili origini, e la terribile gabbia sospesa, nel Macbeth e in Antonio e Cleopatra, usata per punire i delitti più gravi come l'omicidio con premeditazione o a scopo di rapina e che portava spesso il condannato a morire di fame o di sete.

Battaglie

Diversi sono gli scontri campali presenti nei drammi storici: nonostante fossero difficili, se non impossibili, da allestire (così le azioni venivano lasciate fuori dalla scena e un personaggio aveva il compito di descriverle), Shakespeare non vi rinuncia. In scena si potevano riassumere gli eventi mostrando duelli tra i protagonisti o allestendo una scena di massacro con il palco riempito di sangue e arti mozzati, o si poteva recitare l'elenco dei nobili caduti per dare l'idea della dimensione della battaglia (ci penserà poi il cinema a riprodurre le grandi scene di battaglia). "Di tutti gli scontri campali avvenuti nel periodo coperto dai drammi storici di Shakespeare (circa 330 anni) nessuno ha lasciato il segno nella memoria del popolo inglese quanto la battaglia di Agincourt, nel 1415. Nella versione del Bardo, Enrico V è un eroe assoluto, e come tale è ancora percepito tutt'oggi". Anche in questo caso, la realtà storica risulta essere un po' diversa e dovremmo provare a ridimensionare la figura dell'eroe.

Come si moriva in battaglia? A causa delle ferite da taglio, provocate da spade e asce, o dei fori delle frecce. La conseguenza più probabile di una ferita grave è la morte per emorragia. Per descrivere le incredibili lesioni nell'Enrico V si legge: "Tutte le gambe e le braccia e teste tagliate in battaglia". Poche parole ma efficaci.

Oltre ai caduti sul campo, c'erano poi quelli che morivano più tardi a causa delle ferite infette, non curate o curate male: "In passato la fuoriuscita di pus da una ferita era vista come un segno di purificazione e non di infezione. Di conseguenza, le ferite venivano lasciate aperte o 'curate' con garze o lino per drenare il pus, una pratica che Shakespeare conosceva bene: Potrebbero infettarsi per l'ingratitudine e curarsi con la morte (Coriolano)".

Nel Romeo e Giulietta, "Mercuzio riconosce la gravità della ferita che ha subìto e sa che nessun chirurgo potrà mai salvarlo: No, non è fonda come un pozzo, né larga come la porta di una chiesa, ma basta questa. Effetto assicurato. Chiedi di me domani, e troverai un soggetto tombale". Ma non di sole ferite da taglio si moriva, a flagellare gli eserciti ci pensava anche la dissenteria (approfondita più avanti, nel prossimo capitolo dedicato alle malattie).

Oh, meraviglia! Com'è facile scoprire gli autori del delitto! Tito Andronico, atto II, scena 2

Malattie

Quante malattie si trovano nelle opere del Bardo! Non c'è da stupirsi, perché erano all'ordine del giorno, segnavano la quotidianità e la vita di tutti, poveri e ricchi. La malattia del sudore o sudore inglese (sorta dal nulla nel 1485 e scomparsa altrettanto misteriosamente nel 1551) causava febbre alta e sudorazione abbondante: la ritroviamo in Misura per misura, quando Madama Sfondata si lamenta perché, insieme a guerre, impiccagioni e miseria, il sudore ha decimato la sua clientela. La malaria è presente in otto opere di Shakespeare, e in particolare nella Tempesta. E ancora, la tubercolosi, il vaiolo e la sifilide: le vittime di quest'ultima venivano derise (a differenza dei malati di vaiolo, invece compatiti), le prostitute erano accusate di incubarla e i loro clienti invece scagionati (nell'Enrico IV, seconda parte, Falstaff accusa Doll Tearsheet: "Se è il cuoco ad aiutare l'ingordigia, tu aiuti le malattie, Doll"). Una delle deformità caratteristiche della sifilide è il naso a sella, il collasso del naso, causato dalla distruzione della cartilagine, ed è quel che capita a sir William Davenant, poeta, drammaturgo, figlioccio (o figlio, a suo dire) di William Shakespeare. Al tempo, i rimedi utilizzati per ritrovare, almeno in parte, la forma originaria del naso consistevano nell'inserimento nelle narici di tappi di sughero forati con delle penne per favorire la respirazione o nel tentativo di nascondere la deformità con un naso, potremmo dire, artificiale. Nel Troilo e Cressida si fa riferimento a un "naso di bronzo": Cressida si complimenta sarcasticamente con lo zio proprio per il suo "naso di bronzo".

Tra le infezioni letali che, però, non potevano essere rappresentate a teatro c'era la dissenteria, un vero e proprio flagello per gli eserciti in guerra: causata da batteri, virus e parassiti, provocava una grave infiammazione intestinale, a morirne fu Enrico V ma Shakespeare nella sua opera decide di ignorare quella morte così poco nobile per un sovrano.

La più temuta era la peste, che "terrorizzava chiunque perché scoppiava all'improvviso e in poco tempo sterminava un numero impressionante di persone [...] Era una malattia endemica in Inghilterra, fin dai tempi della grande pandemia del XIV secolo (la peste nera), e periodicamente esplodeva in ondate devastanti. Nel XVII secolo quasi non passò anno senza che facesse almeno qualche vittima, fino alla grande epidemia del 1665. Cambiò la vita di Shakespeare, provocando la chiusura dei teatri e la morte di vari attori; lo costrinse persino a reinventarsi come poeta, per trovare una fonte di reddito alternativa". Eppure non esistono drammi dedicati e i riferimenti nelle opere di Shakespeare compaiono come insulti oppure osservazioni di disgusto: la peste viene usata come "invettiva generica, soprattutto contro le persone, ma anche contro ogni sorta di fastidio, dai tamburi (Tutto è bene ciò che finisce bene), al tempo atmosferico (La Tempesta) e addirittura alle aringhe (La dodicesima notte)".

In Romeo e Giulietta Mercuzio, ferito a morte, esplode in un'invettiva contro i responsabili: "La peste su tutte e due le vostre famiglie!". E ancora, nella stessa opera, è sempre la peste a impedire a Frate Giovanni di rivelare a Romeo la reale condizione di Giulietta, che non è morta per il veleno ingerito ma si trova in uno stato di morte apparente. "I sanitari, sospettando che venissimo da una casa dove regna la peste contagiosa, sprangarono le porte e non ci fecero uscire; a quel punto la mia missione a Mantova si è fermata".

Harkup riflette sul fatto che il drammaturgo non abbia sfruttato di più l'espediente della peste nella sue storie, "dato che era un metodo semplice e credibile per sviare, ritardare o persino far morire un personaggio che non serviva più. La peste è la grande assente del teatro elisabettiano, ma di certo non manca negli altri scritti del tempo".

Ma tua sorella morì per amore, caro ragazzo? La dodicesima notte, atto II, scena 4

Forti emozioni e cuori infranti

Nelle opere di Shakespeare svengono uomini e donne, sovrani e gente comune. E svengono spesso, sono circa una ventina i casi rintracciabili nei drammi del Bardo in cui qualcuno perde i sensi a causa di una forte emozione. Ma Shakespeare non si limita a questo, perché sceglie di condurre alla morte alcuni suoi personaggi colpiti da un turbamento eccessivo, travolti dal dolore per un lutto, dal rimorso, da una sofferenza amorosa, da un insostenibile senso di colpa. Nel Riccardo III "l'abate di Westminster, sotto il peso della coscienza e di una terribile depressione, ha appena consegnato il corpo alla tomba". La teoria degli umori, sopracitata, intrecciava salute fisica e salute emotiva: si pensava che le emozioni potessero sconvolgere l'equilibrio del corpo fino a provocare la morte. "In un tempo in cui la causa di molte malattie era ignota, è possibile che il Bardo riportasse i sintomi di una patologia non riconosciuta, oppure li esagerasse per fini drammatici. Tuttavia è altrettanto plausibile che nutrisse la convinzione che le emozioni forti fossero davvero letali".

Il conte di Gloucester nel Re Lear, provato da traumi fisici e psicologici, torturato ed esiliato, non sostiene la tensione emotiva quando ritrova il figlio perduto: "Il suo cuore ferito - ahimè, troppo debole per sopportare il conflitto - tra due passioni estreme, gioia e dolore, con un sorriso si spezzò". Forse la causa di quel cuore infranto è da rintracciare in una anomalia cardiaca preesistente ed esacerbata dalle fatiche e dalle sofferenze. 

La morte di Donna Montecchi in Romeo e Giulietta viene riferita dal marito: "Ahimè, mio signore, stanotte mia moglie è morta. Il dispiacere per l'esilio di mio figlio ha fermato il suo respiro". Nel Cimbelino Leonato muore di crepacuore non riuscendo a reggere il dolore della perdita dei due figli, morti in guerra: "[...] Per questo il loro padre, ormai vecchio e disperato, fu vinto da un dolore tale che cessò di vivere".

In Antonio e Cleopatra, Enobardo muore improvvisamente, schiacciato forse dal senso di colpa, dal rimorso per aver tradito Antonio. Negli adulti la morte improvvisa - spiega Harkup - "è spiegabile con la cardiopatia da stress, una grave disfunzione cardiaca che di solito si verifica a seguito di enormi tensioni fisiche o mentali". Ed è chiamata anche sindrome tako-tsubo, termine giapponese usato per descrivere le anforette per la pesca del polpo, una forma che ricorda quella assunta dal ventricolo sinistro colpito dalla sindrome. Siccome questa patologia può presentarsi in seguito alla scomparsa di una persona cara, è infine conosciuta come sindrome del cuore infranto.

La conclusione è affidata a Lady Macbeth, il cui equilibrio mentale inizia a vacillare con il coinvolgimento nell'omicidio di Duncan. Viene travolta dai sensi di colpa, dal tormento. E in seguito, quando gli omicidi aumentano, inizia a salire la tensione. Lady Macbeth è "angosciata da fantasie che sopraggiungono fitte e le impediscono il riposo": il sonniloquio e il sonnambulismo, causati da ansia e stress, agitano il suo sonno. Il disturbo notturno è solo il primo segnale, l'inizio di un deterioramento che la condurrà al decesso. Non muore per mancanza di sonno (si sarebbe suicidata, così riporta Malcolm nel dramma, facendo riferimento a una diceria), ma questa privazione di pace e riposo potrebbe essersi rivelata deleteria e potrebbe aver aggravato le condizioni della donna: "Il deterioramento della facoltà mentali, l'incapacità di concentrazione, le allucinazioni, possono indurre una persona a compiere gesti irrazionali e pericolosi. La parabola discendente di Lady Macbeth, che dall'ansia e dal turbamento emotivo degenera nel sonnambulismo, quindi nell'insonnia e infine nella morte, è plausibile".

Che fine assurda!

In Shakespeare c’è persino chi muore incenerito da un fulmine, così accade a re Antioco e alla figlia nel Pericle: i due vengono colpiti, mentre sono in viaggio a bordo di una carrozza. Se nel Mercante di Venezia non fosse provvidenzialmente intervenuta Porzia, Antonio sarebbe morto tra atroci sofferenze, dovendo concedere a Shylock una libbra della sua carne. Infine, ecco gli animali: dall'orso Sackerson, citato nella commedia Le allegre comari di Windsor, all'orso del Racconto d'inverno disturbato da Antigono il quale, errore fatale, decide di scappare trasformandosi, così, in una preda. 

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