CULTURA

(Non) Autofiction vol. 2: Una piccola pace di Mattia Signorini

Ricordate l’inizio della prima Lezione americana di Calvino? Quella sulla leggerezza?

Scrive uno dei più grandi della letteratura italiana: “Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e del linguaggio”.

Questa è l’esperienza che si fa leggendo l’ultimo romanzo di Mattia Signorini: si sperimenta cioè la lievità. Si intitola “Una piccola pace” (Feltrinelli, 2022) e racconta una storia realmente accaduta: la tregua di Natale durante la Prima guerra mondiale, nel 1914, a Ypres, nelle Fiandre. C’è modo e modo di narrare, questo lo sappiamo bene, e il processo di cui Signorini è stato maestro, qui, è stato quello di scarnificare gli eventi, tratteggiarli con segno pulito e univoco e trasferirceli come in una fiaba. Questo però non significa che li abbia depotenziati. Che non si senta il dolore, che non si percepisca l’amore, la paura, la gioia, che la semplificazione abbia reso semplicistico il risultato. Tutt’altro.

A raccontare la storia è uno dei due protagonisti, quasi vent’anni dopo, mentre attraversa di nuovo quei luoghi insieme a suo figlio bambino. Dalla sua ricostruzione conosciamo William Turner, l’artefice di quella pace, il giovane fuciliere inglese appassionato di fotografia che partiva per il fronte con la macchina fotografica, a cui peraltro dobbiamo le immagini – che l’autore ha consultato negli archivi – di quella guerra in quelle trincee.

Ci viene raccontato cosa teneva con sé in quello spazio di attesa, come lui e gli altri correvano verso la prima linea e oltre, come si tornava e si faceva la conta. Signorini ci racconta la speranza, che ha il volto di una ragazza che ti sfiora la mano, racconta il brivido della rassegnazione, la malinconia e il ricordo. Il desiderio di raggiungere il mare.

Ma a nulla è dato un nome. Non si spiegano le fiabe, non si spiegano i romanzi. Né le metafore.

Sempre Calvino scriveva nella lezione sulla leggerezza: “In un primo momento volevo dedicare questa conferenza tutta alla luna: seguire le apparizioni della luna nelle letterature di ogni tempo e paese. Poi ho deciso che la luna andava lasciata tutta a Leopardi. Perché il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare. Le numerose apparizioni della luna nelle sue poesie occupano pochi versi ma bastano a illuminare tutto il componimento di quella luce o a proiettarvi l’ombra della sua assenza”.

Ecco, quando leggiamo una poesia di Leopardi sappiamo che non è precisamente autobiografico quello che racconta, o non per forza, eppure c’è tutto di lui nei suoi versi.

La stessa cosa vale per Signorini, che sempre (lo racconta lui stesso) scrive storie d’invenzione ma dentro le quali – anche se hanno le fattezze del racconto metaforico – c’è la sua esperienza di uomo, oltre che di scrittore.

E tutta la lievità con cui le cose più intense si possono raccontare.

Non scegliamo noi in che circostanze capitare Mattia Signorini

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