SOCIETÀ

Olof Palme e il sogno di un’Onu protagonista

A distanza di anni l’omicidio di Olof Palme, avvenuto il 28 febbraio 1986 nel centro di Stoccolma, rimane un mistero irrisolto e una ferita aperta, non solo per la Svezia: parliamo infatti di un protagonista della politica internazionale di quegli anni, conosciuto per il suo impegno per i diritti umani e la lotta alle disuguaglianze. Non male per un Paese di appena otto milioni di abitanti.

Tanto che negli anni ’80 – così come altre figure di spicco della socialdemocrazia ‘nordica’, come il tedesco Willy Brandt e la norvegese Gro Harlem Brundtland – Palme viene messo dalle Nazioni Unite a capo di una commissione d’inchiesta internazionale, nel suo caso incaricata di redigere un rapporto su armamenti e sicurezza nell’ambito del confronto tra Est e Ovest.

“In quegli anni Palme è una delle figure di maggior rilievo a livello mondiale – spiega Elena Calandri, docente di storia delle relazioni internazionali presso l’università di Padova –. In parte per il suo carisma, poi anche perché beneficia della credibilità e del prestigio acquisiti dalla Svezia nel corso del ventesimo secolo come modello di società avanzata, all’avanguardia nel welfare e nella tutela dei diritti. Chiudendo ovviamente un occhio su una serie di aspetti meno idilliaci: come quello della cultura dell’eugenetica, che ha avuto nel Paese scandinavo uno dei suoi baluardi e di cui troviamo un riflesso nel sostegno alle politiche di contenimento delle nascite in Paesi come l’India”.

Sta di fatto che negli anni ‘60 e ‘70 sono in molti a guardare con ammirazione alla Svezia.

“Modello che Palme incarna perfettamente. Cresciuto all’interno del partito socialdemocratico succede al premier Erlander, figura altrettanto autorevole ma con minore proiezione internazionale, e occupa una posizione estremamente importante nella storia della socialdemocrazia europea. Con Brandt e il cancelliere austriaco Kreisky forma una sorta di triade: tutti appartengono alla sinistra dei rispettivi partiti e occupano ruoli importanti nell’internazionale socialista, oltre ad essere molto presenti a livello europeo e mondiale in una fase storica come quella della distensione, in cui sembra esserci di nuovo spazio per il neutralismo e il terzomondismo”.

Come mai questo protagonismo, anche da parte di Paesi relativamente piccoli?

“Storicamente i Paesi nordeuropei hanno puntato sulle istituzioni internazionali fin dal tempo della Società delle Nazioni, che rispetto all’Onu aveva un assetto più egalitario e non contemplava un diritto di veto da parte delle grandi potenze. Dopo la seconda guerra mondiale questo filo viene riannodato e non è un caso che tra i primi segretari generali delle Nazioni Unite ci siano Trygve Lie, norvegese, e Dag Hammarskjöld, svedese. A lungo il forte investimento dei Paesi nordici sull’Onu rimane un elemento di continuità, con un’attenzione particolare ai temi della decolonizzazione e della cooperazione allo sviluppo. soprattutto in Svezia c’è l’idea che il welfare possa in qualche modo avere una dimensione internazionale e mirare a una diversa distribuzione della ricchezza e dello sviluppo. Forse anche per redimersi dell’accondiscendenza mostrata verso il nazismo durante la seconda guerra mondiale”.

Come viene attuata questa politica nei confronti di quello che allora viene chiamato Terzo mondo?

“Già alla fine degli anni ‘40 i Paesi scandinavi e l’Olanda, anche se non ancora ricchi come oggi, investono nell’aiuto allo sviluppo: dal 1949 ad esempio la Norvegia avvia una politica cooperazione con l’India e in seguito con la Tanzania. L’Italia, per fare un paragone, inizierà solo tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio degli anni ‘60. Piccoli programmi che però hanno un rilievo politico importante, e nei quali l’Onu viene sempre coinvolta, attraverso un processo di reciproca legittimazione che giova a tutti. Palme raccoglie questa eredità ma la fa anche fruttare con le sue qualità personali”.

Così all’inizio degli anni ’80 viene incaricato dalle Nazioni di indagare su sicurezza e traffico di armi…

“Nel 1982 Palme presenta il rapporto redatto assieme a una commissione indipendente. Riguarda soprattutto il disarmo nucleare, mentre non ha molto a che fare invece con il commercio di armi, che il politico svedese incrocia soprattutto viene incaricato dal segretario generale Kurt Waldheim di cercare una mediazione nel conflitto Iran-Iraq”.

Si riferisce al noto caso Iran-Contras?

“Che quella guerra sia una manna economica per moltissimi Paesi è un dato di fatto. E anche gli Usa, che in conseguenza della crisi degli ostaggi hanno relazioni ufficiali pessime con l’Iran, non esitano a scambiare armi e favori con gli ayatollah, anche perché l’amministrazione Reagan vuole acquisire risorse da destinare ai Contras che in Nicaragua combattono il governo sandinista. Un quadro – in cui secondo alcuni documenti è coinvolta anche la loggia P2 – a cui alcuni fanno addirittura risalire l’assassinio di Palme, che rimane ancora oggi irrisolto”.

Sveavägen, Olof Palme

Che impatto ha il rapporto Palme?

“Nell’immediato piuttosto marginale: difficile pensare a un suo ruolo nella riduzione degli armamenti nucleari, frutto degli accordi bilaterali tra Usa e Urss negli anni ’80. Forse però contribuisce a creare il contesto politico e culturale in cui matura il disarmo: va ricordato a questo riguardo il discorso in cui nel 1988 Gorbaciov propone una rifondazione dell’Onu. Al tempo viene liquidata come mossa propagandistica, ma possiamo pensare che lavori come quelli fatti dalle commissioni producano i mattoni di quello che poi diventa il concetto di global governance, che mira ad affrontare in maniera coordinata i grandi temi che riguardano l’umanità nel suo insieme”.

Qual è l’importanza dei dossier preparati da Palme, Brandt e Brundtland?

“Dei tre l’ultimo è certamente il più influente, in particolare nell’evoluzione del concetto di sviluppo sostenibile come architrave di una nuova sensibilità verso l’ambiente. Le idee base degli altri – interdipendenza per il rapporto Brandt e sicurezza comune per il rapporto Palme – per il momento non hanno avuto stessa fortuna. Non dimentichiamo che l’Onu negli anni ‘80 è in profonda crisi, tra impasse del multilateralismo, ripresa della guerra fredda e la spaccatura nord-sud. Nel 1980 il rapporto Brandt cerca di portare avanti un concetto di redistribuzione della ricchezza a livello internazionale, ma è solo il canto del cigno di una cultura che sta sparendo. Con l’amministrazione Reagan e il neoliberismo a condurre il gioco saranno sempre meno i politici e sempre più gli economisti; diventano protagonisti l’Fmi e soprattutto la Banca mondiale, che sposa la logica dei conti in ordine e dell’‘aggiustamento strutturale’: gli Stati non sono più visti come propulsori delle politiche per lo sviluppo. Si chiude una fase e un importante spazio d’azione per l’Onu. Rimane comunque, grazie anche alle commissioni di cui abbiamo parlato, c’è una produzione di rapporti e di idee che negli anni ’90, con la fine della guerra fredda, contribuiranno a ridare un ruolo centrale all’Onu”.

Oggi ci sarebbe ancora bisogno di iniziative del genere?

“Certamente, anche se a condurle ci vorrebbero personalità accreditate e autorevoli a livello internazionale, che forse oggi non si vedono. Per certi versi rispetto siamo tornati molto indietro a quegli anni”.

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