SCIENZA E RICERCA
Gli ottanta anni del neandertaliano del Circeo
Quest’anno ricorrono gli ottanta anni dalla scoperta, il 25 febbraio 1939, nella grotta Guattari sul monte Circeo, circa 80 chilometri a sud di Roma, del cranio neandertaliano conservato oggi nel Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma. Il reperto, individuato dal proprietario della grotta, da cui la stessa ha preso il nome, e da Damiano Bevilacqua, fu consegnato all’archeologo preistorico Alberto Carlo Blanc che lo portò a Roma per studiarlo unitamente a Sergio Sergi, il direttore dell’Istituto di Antropologia dell’università di Roma “La Sapienza”. Quel resto fossile ha riscosso tra gli antropologi una notorietà che è andata oltre la scoperta paleoantropologica, in quanto si è ritenuto che rappresentasse la prova tangibile del complesso psichismo dei neandertaliani. Il cranio infatti giaceva sul terreno, all’interno di un circolo di pietre, con la base rivolta verso l’alto e il foro occipitale allargato. E Sergi lo ha descritto in maniera davvero suggestiva: “Il cranio è mutilato largamente alla base [...] dove non vi è più traccia del forame occipitale. [...] L’apertura della base ha una forma abbastanza regolare come di un trapezio isoscele. [...] La superficie di frattura all’intorno sembra qua e là determinata da ripetuti colpi con un oggetto alquanto appuntito. Inoltre ad un’analisi accurata si rinvengono come ritocchi supplementari di un primo scalpellamento. È da presumere che l’apertura sia stata praticata e regolarizzata intenzionalmente al momento della morte per estrarne il cervello” (Biondi, Rickards, Umani da sei milioni di anni, Carocci, Roma, 2017, pp. 155-6).
L’interpretazione di Sergi pareva trovare sostegno nella pratica utilizzata da alcune popolazioni del Borneo e della Melanesia per prelevare il cervello dalle spoglie dei nemici a scopo di cannibalismo rituale. E la supposta sovrapposizione comportamentale ha convinto gli studiosi che i neandertaliani fossero in possesso di sofisticate funzioni mentali, all’interno delle quali si andava organizzando il primo pensiero magico-religioso.
Studi più recenti però hanno escluso quella congettura e hanno ricondotto la mutilazione ai morsi di animali che si cibano di cadaveri, forse di iene le cui ossa sono state trovate nella grotta.
La nuova interpretazione, sicuramente corretta sul piano scientifico, non ha affatto modificato l’idea che gli antropologi hanno attualmente dei neandertaliani e cioè di una specie in possesso di una struttura psichica e culturale assai complessa, con la quale la nostra specie Homo sapiens è convissuta per qualche migliaio di anni e si è incrociata, anche se a un livello decisamente modesto. L’incrocio, come hanno dimostrato gli studi di antropologia molecolare, ha coinvolto le popolazioni europee e asiatiche ma non le africane, perché è avvenuto successivamente alla nostra uscita dell’Africa.
Le ricerche di antropologia molecolare hanno anche documentato che i neandertaliani dovevano avere una carnagione chiara e una capigliatura rossiccia, che conoscevano il valore curativo di diverse piante, che potevano avere forse un linguaggio articolato piuttosto complesso e che vivevano in piccoli gruppi.
La struttura sociale dei neandertaliani era assai complessa. E proprio tale complessità ha permesso loro di procurarsi il cibo mediante la caccia di gruppo e di accudire i malati: come è stato possibile desumere dallo scheletro, trovato nel sito archeologico di Shanidar in Iraq, con tracce di artrite e mutilazioni e fratture subite in vita e a tal punto invalidanti che solo la solidarietà del gruppo può aver consentito a quell’individuo di sopravvivere. Oltre a questi aspetti devono poi essere considerati l’elevato sviluppo raggiunto dalla loro tecnologia, che è stata alla base di una produzione litica di attrezzi e armi molto avanzata; la loro capacità di produrre oggetti artistici, come sembra svelare l’incisione di un mammut su un corno d’avorio; e l’attenzione all’ornamento del corpo. Su quest’ultimo punto ha fatto luce l’importante ricerca effettuata sul materiale rinvenuto nella Grotta di Fumane presso Verona nel 2010. Infatti, sulle ossa delle ali di vari uccelli portate alla luce nel sito e risalenti a 44.000 anni fa sono state evidenziate tracce di tagli prodotte con strumenti litici, che gli studiosi hanno ritenuto essere stati praticati per recuperare le penne da utilizzare come decorazione della persona. Quegli ominini, caratterizzati da una struttura familiare di tipo patrilocale, non sono però mai riusciti ad andare per mare.
Da ultimo, vale la pena ricordare che ancora presso Roma nel 1929 e nel 1935 sono stati trovati – precisamente a Saccopastore nei pressi di ponte Tazio – due crani neandertaliani risalenti a circa 250.000 anni fa e conservati oggi nel Museo di Antropologia della Sapienza Università di Roma.