CULTURA

Il Paese alla rovescia della Biennale

All’Arsenale, la 14. Mostra internazionale di Architettura inizia dall’Italia. L’asse allungato delle Corderie segna un  percorso a tappe attraverso un Paese alla rovescia, Monditalia, che parte da sud, dalle ex colonie africane, fino a raggiungere le Alpi, passando per Lampedusa, Pompei, Cinecittà, la riviera Romagnola, Milano 2. Grazie a molti  giovani ricercatori, che singolarmente o a piccoli gruppi hanno prodotto uno studio enciclopedico di  41 casi, assistiamo alla rappresentazione corale di un paese oggi  legato – e allo stesso tempo lacerato – dalla propria bellezza e dalla propria umanità, da una politica controversa e da giochi di potere. L’architetto olandese Rem Koolhaas, il curatore di questa Biennale che ha voluto  intitolare Fundamentals, ha pensato questo spazio come contenitore di un’indagine sistematica sull’Italia, “un paese fondamentale, unico nel suo genere ma con alcune peculiarità – in particolare la coesistenza di immense ricchezze, creatività, competenze e potenzialità con la turbolenza politica – che fa di questo paese un prototipo della situazione attuale”. È coerente, da questo punto di vista, la sua risposta a chi osserva che la vernice della Mostra, il 5 giugno, è avvenuta il giorno dopo l’esplosione dello scandalo veneziano sul Mose: “In realtà questa operazione fa uscire l’Italia dal reame della caricatura. Questo è un paese cruciale, che porta in sé tensioni enormi: una storia incredibile di alti e bassi, di potenziali che non si è mai riusciti a sfruttare fino in fondo. L’Italia potrebbe essere molto di più di quello che è oggi. E anche ciò che è accaduto qui alla vigilia dell’inaugurazione è un esempio lampante di questa tensione fra la qualità di cui siete in possesso e la sua cattiva gestione”.

Le luminarie di Santa Rosalia introducono allora a questo viaggio in Italia, raccontato attraverso installazioni, musica, foto, plastici, performance teatrali e balletti. Sullo sfondo, proiezioni di film di Antonioni e Rossellini, di Sapore di mare e Bianco, rosso e Verdone. Silvana Mangano ammicca dal grande schermo mentre le foto del festival Sikh Vaisakhi raccontano di una Pianura Padana un tempo casa delle mondine di Riso amaro.

“Ma quella non è architettura” si vocifera al bar e sul vaporetto che connette l’Arsenale ai Giardini di Castello. Però è spazio vissuto e animato, è un palcoscenico sul quale si muovono più componenti artistiche; fa capire quanto complessa possa essere l’architettura, la costruzione di uno spazio fisico e mentale, urbano, edilizio, collettivo, luogo individuale e condiviso fra pratica e pensiero.

“È stato uno sbaglio inventare l’architettura moderna per il XX secolo; l’architettura è scomparsa nel XX secolo” scriveva dodici anni fa Rem Koolhaas in Junkspace. È la provocazione di chi invece all’architettura ci ha dedicato 50 anni, progettando, insegnando, scrivendo. E che ora sente l’esigenza di tornare a ciò che è fondamentale, alla storia, agli elementi di base che la compongono. Ecco allora che il padiglione centrale ai giardini della Biennale lo dedica alle scale, ai soffitti, ai pavimenti, ai balconi, ai corridoi, e alle altre 10 componenti a ciascuna delle quali viene dedicata una sala. È la sezione Elements della Biennale. Portali dalle forme tradizionali, riprodotti in scala 1-1, convivono nella sala Door con battenti, chiavistelli, chiavi antiche e serrature computerizzate, e a una nuova porta metal detector smart security per i controlli aeroportuali. Si supera la climatizzazione del luogo nella sala “Fireplace”, dove una serie di elementi a soffitto, progettati da un gruppo di ricerca del MIT, mostrano gli sviluppi di un sistema di riscaldamento basato sull’interazione del sistema con il singolo individuo, localizzato grazie ai segnali emessi dal telefono cellulare. In altre sale si ripercorre l’evoluzione del muro, quella delle scale, o quella delle toilet. “Una specie di Saie [la fiera annuale di Bologna sui componenti per l’edilizia] radical chic” lo definisce lo storico dell’architettura Luigi Prestinenza Puglisi, che aggiunge “In realtà Rem Koolhaas è riuscito a fare un’opera d’arte pop con gli elementi dell’architettura. Per non farsi passare come un’archistar, che pare essere la sua maggior preoccupazione, Rem ha distrutto tutta l’architettura e anche i suoi colleghi: in questo modo lui emerge. Qui manca l’architettura, perché mancano gli architetti. E se ci fossero stati gli architetti, Koolhaas sarebbe finito in secondo piano”.

Un’egemonia, quella del curatore, che però ha permesso un’insolita omogeneità nello sviluppo, da parte dei curatori dei padiglioni nazionali, dell’unica comune tematica proposta da Koolhaas: Absorbing modernity: 1914- 2014, intesa come verifica dell’assunto secondo cui i caratteri locali del costruire si sono evoluti secondo un’unica direzione comune, livellando l’architettura e dando forma a uno stile internazionale, uguale a Hong Kong come a Huston, a Milano come a Francoforte. “Non abbiamo proposto una formula uniforme” precisa Koolhaas, “ciascuno stato si è approcciato in modo diverso”. Così accade che il Leone d’oro per la miglior partecipazione nazionale sia andato alla Corea, che per la prima volta presenta un’operazione congiunta, Nord e Sud, intitolata Crow's Eye View: The Korean Peninsula, che dimostra il potenziale di un territorio nell’unione delle due culture. Il Leone d’argento va invece al Cile, che in Monolith Controversies racconta la propria storia architettonica attraverso quella di un unico elemento edilizio adottato in contesti storici e politici diversi. Il Canada esplora un passato architettonico recente e un attuale presente urbano nei territori artici; il Giappone indaga il periodo successivo alla bolla economica del dopoguerra, scoppiata negli anni Settanta, attraverso un giustapporsi di progetti e oggetti. Il padiglione della Francia (menzione d’onore) ruota intorno al film di Jacques Tati Mon Oncle, dando voce a una critica del modernismo, nel contrasto fra ideali e fallimenti. L’Italia occupa una porzione dell’Arsenale con un’esposizione curata da Cino Zucchi intitolata Innesti – Grafting, nella quale Milano si fa protagonista, esempio d’intervento architettonico puntuale che rimodella lo skyline cittadino. Un “laboratorio per il moderno”: la ricostruzione dopo i bombardamenti, i mutamenti di piazza duomo, il progetto per Expo 2015. A questo spazio Zucchi affianca un percorso nel paesaggio italiano contemporaneo: episodi e modelli di architettura e urbanistica che dipingono un’Italia in buona salute (architettonica).

Fra entusiasmi e critiche la biennale d’Architettura 2014 si conferma fonte di discussione. Quest’anno però le parole si spendono sulla storia, piuttosto che sulla contemporaneità; sugli elementi costruttivi  come parole di un linguaggio del quale decifrare la grammatica; sull’architettura più che sugli architetti. Con l’eccezione di Rem Koolhaas, unica “star” della mostra.

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