CULTURA

Perché rileggere “Per la pace perpetua” a 300 anni dalla nascita di Kant

Trecento anni fa, nel centro di Königsberg, nell’allora Prussia orientale, nacque uno dei pensatori più influenti della filosofia moderna. Immanuel Kant viene ricordato principalmente per le sue Critiche (della Ragion pura, della Ragion pratica e del Giudizio), e come il filosofo del noumeno, dei limiti della conoscenza, nonché autore di un vero e proprio manifesto sull’Illuminismo.

Pubblicata nel 1795, all’indomani di grandi eventi destinati a ridisegnare gli equilibri del mondo occidentale, come la Rivoluzione francese, la conseguente elaborazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, la Rivoluzione americana e la nascita della federazione degli Stati Uniti, Per la pace perpetua, non è certo l’opera kantiana più celebre, ma rappresenta un contributo fondamentale alla storia del pensiero politico. In questo progetto filosofico la pace non viene considerata come l’espressione di un innato spirito di fratellanza tra i popoli, bensì, al contrario, come un’esigenza razionale e un dovere concreto per ogni essere umano, raggiungibile attraverso l’istituzione di un diritto internazionale.

In un momento storico difficile e doloroso, in cui la parola “pace” sembra riferirsi quasi a un’utopia, più che a una reale possibilità, approfondiamo la riflessione kantiana sulla pace perpetua con l’aiuto di Maurizio Merlo, già professore di storia della filosofia politica all’università di Padova.

Per la pace perpetua è un’opera abbastanza tarda nella produzione kantiana, che contiene riflessioni ancora oggi di estrema attualità”, premette il professor Merlo. “Nella premessa dell’opera, l’autore afferma di essere stato ispirato dall’insegna di un’osteria olandese, sulla quale era dipinta l’immagine di un grande cimitero, la quale recitava proprio: Per la pace perpetua. Questa esperienza lo indusse a domandarsi cosa fosse la pace e quali fossero le condizioni per la sua realizzazione”.

Il testo ha una struttura simile a quella di un trattato di pace: si sviluppa in sei articoli preliminari, che servono a stabilire alcuni concetti di base propedeutici alla trattazione vera e propria, tre articoli definitivi, che contengono il cuore dell’argomentazione kantiana, due supplementi e un’appendice.

“Gli articoli preliminari trattano, ad esempio, del rifiuto della concezione dello Stato come un patrimonio da vendere e acquistare”, spiega il professor Merlo. “In questa prima parte dell’opera Kant argomenta anche contro il mantenimento gli eserciti permanenti, la cui esistenza trasformerebbe i cittadini in strumenti, e cioè in semplici macchine per uccidere e pronti per essere uccisi”.

Quest’ultimo punto è fondamentale per comprendere la continuità di quest’opera con la riflessione kantiana sulla morale, che si basa sull’imperativo categorico di agire in modo tale da considerare sé stessi e gli altri sempre come fini, e mai come mezzi. In questo senso, la pace rappresenta l’unica condizione in cui è possibile impedire ogni forma di strumentalizzazione di esseri umani da parte di altri esseri umani.

“Nel primo dei tre articoli definitivi, Kant afferma che l’unica forma di governo che possa condurre alla pace perpetua è quella repubblicana, all’interno della quale ogni individuo non è un suddito, bensì un cittadino politicamente attivo”, spiega il professor Merlo. “Secondo Kant è solo all’interno della sfera pubblica critica (Öffentlichkeit), attraverso un impegno concreto e razionale da parte di ogni cittadino, che una società può costantemente svilupparsi e progredire. La sfera pubblica è perciò un luogo in cui tutti i cittadini sono chiamati a schierarsi a favore o contro la guerra”.

Secondo Kant, una società repubblicana “tende per sua natura alla pace” perché, escludendo gli eserciti permanenti, i suoi membri (considerati esseri razionali) non si esprimerebbero mai a favore della guerra, sapendo di dover sostenere in prima persona i costi materiali ed economici che ne deriverebbero. “Kant afferma che, nelle forme di governo dispotiche, i governanti entrino in guerra per ragioni futili, che non hanno nulla a che vedere con l’interesse pubblico”, spiega il professor Merlo. “Essi considerano i cittadini come semplici strumenti attraverso i quali soddisfare la loro brama di sangue e di potere. In una società repubblicana, al contrario, i cittadini esercitano invece una critica nei confronti delle pretese belliche dei vari governanti”.

Il sovrano non è membro dello Stato, ma ne è il proprietario e nulla perde dei suoi banchetti, delle sue cacce, castelli, feste a corte, ecc. a causa della guerra, e la può quindi dichiarare come una specie di partita di piacere per cause insignificanti Immanuel. Kant, "Per la pace perpetua". Ed. BUR 2013 a cura di Laura Tundo Ferente

È particolarmente interessante notare che, secondo il ragionamento kantiano, l’azione dei cittadini uniti in una repubblica e il loro conseguente rifiuto della guerra non si basino su alcun istinto di benevolenza e pacifismo. Al contrario, la convivenza pacifica è per Kant una scelta puramente razionale. “Il richiamo alla ragione e all’intelletto è uno dei punti portanti del discorso kantiano”, continua il professor Merlo. “Kant concorda con la concezione dell’essere umano proposta da Hobbes, il quale afferma che gli esseri umani sono tutt’altro che buoni per natura. In ogni individuo è insito, infatti, un male radicale impossibile da estirpare. Secondo Kant, nessuno di noi tende per natura alla pace; al contrario, nello ‘stato di natura’ siamo inclini alla guerra, spinti da brame di potere e da intenti puramente egoistici. In questo senso, non si può propriamente considerare Kant un pensatore pacifista”.

Eppure, gli esseri umani posseggono comunque qualcosa in grado di “salvarli” dalla loro natura intrinsecamente malvagia e belligerante. Si tratta, come anticipato, dell’intelletto. “Secondo Kant, anche un popolo di diavoli, purché dotato di intelletto, si schiererà a favore della pace”, sottolinea Merlo. “La pace – così come la costituzione dello stato civile – non è frutto di un sentimento naturale dell’essere umano. I sentimenti alimentano le pretese belliche e ci spingono ad autodistruggerci con ogni mezzo possibile. La pace, allo stesso tempo, non è neanche dettata da un’autorità morale esterna: non è legata, cioè, alla fede teologica. Essa rappresenta, piuttosto, una condizione che un popolo deve autoimporsi attraverso l’utilizzo dell’intelletto e della ragione”.

Come specifica nel secondo articolo definitivo della sua opera, Kant sostiene che l’autocostrizione alla pace non debba regolare solo la vita dei singoli cittadini, ma anche i rapporti tra i diversi stati nazionali che, proprio come gli esseri umani, tendono per loro natura alla guerra. Già alla fine del Settecento Kant argomentava perciò a favore di una federazione di stati liberi, il rapporto tra i quali andava regolato dall’istituzione di un diritto internazionale.

“Il diritto internazionale è per Kant una derivazione logica della sfericità della terra”, spiega Merlo. “Egli si basa su questo dato empirico per argomentare che, ci piaccia o no, tutti i popoli sono destinati a incontrarsi prima o poi. Ancora una volta, non dobbiamo aspettarci che questo incontro si traduca in atti di benevolenza o di filantropia. L’incontro deve basarsi, piuttosto, sul riconoscimento del diritto di ognuno di abitare – e non soltanto di possedere – la terra.

Quella di Kant è una delle prime prese di posizione esplicite contro il colonialismo europeo. Secondo il filosofo, tutti godiamo di un diritto di visita, che non ci autorizza però a imporci con la forza sulle popolazioni con cui entriamo in contatto, e di un diritto cosmopolitico, secondo cui ogni abitante della terra va riconosciuto come un cittadino del mondo. In questo senso, Per la pace perpetua è anche una dissertazione sulla globalità dell’esperienza umana. Il mantenimento della pace nel rispetto di un diritto internazionale è un dovere che spetta a tutti gli esseri umani sulla terra, accomunati tra loro dal possesso della ragione”.

Se è un dovere, e insieme una fondata speranza, realizzare una situazione di diritto pubblico, sebbene solo con una approssimazione progressiva all'infinito, allora la pace perpetua […] non è idea vuota. Immanuel. Kant, "Per la pace perpetua". Ed. BUR 2013 a cura di Laura Tundo Ferente

Vale la pena di sottolineare, infine, che Kant non considera la pace perpetua un’utopia. Pur ammettendo la possibilità che tale condizione non venga mai concretamente raggiunta, questo non è un buon motivo per non tentare di avvicinarsi ad essa il più possibile.  “La pace perpetua è un dovere inesauribile, un debito che abbiamo verso noi stessi e verso la giustizia, termine che oggi sentiamo utilizzare sempre meno nel dibattito politico”, osserva Merlo. “Rileggere oggi l’opera kantiana e riscoprirne l’attualità alla luce dello scenario politico globale può aiutarci se non altro a capire questo, e a non accettare che i nostri rappresentanti politici si rassegnino alla guerra, sempre più spesso considerata inevitabile”.

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