SCIENZA E RICERCA

Il Piano Amaldi per la ricerca di base nel Recovery Plan

Il 12 gennaio scorso il consiglio dei ministri italiano ha approvato una bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), altresì noto come Recovery Plan o Next Generation Italia, che mira a distribuire il fondo europeo Next Generation EU (circa 222 miliardi di Euro, da spalmare almeno fino al 2026) attorno a 3 assi strategici: innovazione e digitalizzazione, transizione ecologica e inclusione sociale.

A loro volta i tre assi sono suddivisi in 6 missioni: 1. Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura; 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3. Infrastrutture per una mobilità sostenibile; 4. Istruzione e ricerca; 5. Inclusione e coesione; 6. Salute.

Alla quarta missione, Istruzione e Ricerca, è dedicato un budget di circa 28 miliardi di euro, a sua volta suddiviso in 16,72 per il mondo della formazione, dagli asili nido all’università (alla voce “Potenziamento delle competenze e diritto allo studio”), e 11,77 a quello della ricerca (“Dalla ricerca all'impresa”), su cui ci soffermeremo in quest’articolo.

La sezione dedicata alla ricerca parte da una costatazione di fatto: l’Italia sconta un notevole ritardo rispetto ai valori della media Ocse (2,4%) per quanto riguarda gli investimenti pubblici e privati in ricerca e sviluppo. In Italia sono infatti pari all’1,4% del Pil nazionale (dati del 2018), di cui 0,9% la componente privata e solo lo 0,5% quella pubblica.

I finanziamenti pubblici a propria volta sono divisi in ricerca di base (0,32%) e ricerca applicata (0,18%) che in termini assoluti corrispondevano nel 2019 a un investimento statale di 9,3 miliardi di euro (6 circa in ricerca di base e 3 in ricerca applicata).

Per fare un confronto con i Paesi europei con cui i ricercatori italiani devono competere per l’assegnazione dei fondi di ricerca internazionali, la Germania investe 30 miliardi di euro pubblici in ricerca (l’1% del Pil), la Francia 18 miliardi (0,75%), mentre dal loro settore privato arrivano rispettivamente investimenti pari al 2,1% e all’1,4% del Pil. Le differenze colpiscono ancora di più quando si confronta l’investimento in ricerca pubblica fatto per ogni cittadino: in Italia 150 euro/anno da confrontare con i 250 euro/anno della Francia e i 400 euro/anno della Germania.

La stessa distanza si misura guardando al numero di ricercatori per numero di abitanti: in Italia sono circa 6 ogni 1000, mentre la media Ocse è 9.

Il tessuto industriale e imprenditoriale italiano poi è fatto per la gran parte di micro, piccole e medie imprese che ad oggi hanno “mantenuto bassa la domanda di innovazione, limitando il potenziale di utilizzo (e la relativa valorizzazione) della base scientifica e tecnologica già disponibile”, come si legge nel testo del Recovery Plan.

Gli interventi in programma mirano allora a dare “un significativo contributo per ridurre il divario di spesa in ricerca e sviluppo rispetto agli altri Paesi più avanzati, come richiesto anche da eminenti esponenti dello stesso mondo della ricerca italiano (Piano Amaldi)”.

La bozza del Recovery Plan menziona esplicitamente il Piano Amaldi, di cui Il Bo Live aveva già scritto, tramite la penna del suo compianto caporedattore, e intervistando il diretto interessato, Ugo Amaldi, già fisico del Cern di Ginevra e professore all’università di Milano-Bicocca, che ha avanzato la sua proposta nel saggio Pandemia e resilienza pubblicato nel luglio 2020.

In sintesi, il Piano Amaldi, oltre a ricordare perché per un Paese che voglia dirsi avanzato sia indispensabile investire in ricerca, specialmente quella di base, propone di raddoppiare gli investimenti in ricerca e sviluppo da qui al 2026 e di farlo per gradi.

“Poiché l’Italia è in grave ritardo rispetto a molti Paesi” scrive Ugo Amaldi nel suo saggio, “è necessario cogliere il momento opportuno aumentando drasticamente, nei prossimi 6 anni, i fondi per la ricerca in modo da raggiungere nel 2026 una spesa in ricerca pubblica pari all’1,1% del Pil, a partire dall’attuale 0,50%. Per centrare questo obiettivo la mano pubblica dovrebbe aggiungere al bilancio dell’anno prossimo, 1,5 miliardi di euro (di cui 1 miliardo per la ricerca di base e 0,5 miliardi per la ricerca applicata, in modo da mantenere il rapporto 2:1) e poi aumentare l’investimento in ricerca del 14% all’anno per cinque anni. Così, tra tre anni il rapporto tra le spese in ricerca e il Pil sarà quasi uguale a quello 0,75% che la Francia ha oggi”.

Intervistato da Il Bo Live, il fisico Ugo Amaldi ricorda che “La proposta, che il dottor Federico Ronchetti (fisico dell’Infn, a capo dell’esperimento ALICE, ndr) ha poi diffuso con il nome di “Piano Amaldi”, è scritta in un volumetto uscito a luglio, che si chiamava Pandemia e Resilienza con prefazione di Giuliano Amato, e proponeva uno scopo ambizioso, e cioè quello di raggiungere in 6 anni la Germania e in 3 anni la Francia, cioè passare da quello che oggi è l’investimento in ricerca pubblica, di base e applicata, di circa 9 miliardi, al doppio.

"Poi lo scorso settembre il professor Maiani e la dottoressa Caporale hanno scritto un articolo sull’Huffington Post in cui dicevano che questo scopo era troppo ambizioso, e che nelle attuali circostanze è necessario limitarsi a quello più modesto, che richiede meno soldi, ovvero a quello di raggiungere la Francia in 5 anni, il che vuol dire passare da 0,5% del Pil a 0,75%, e non più quindi raggiungere la Francia in 3 anni, come avevo proposto. Anch’io ho firmato, con Maiani e altri dodici scienziati, la lettera al Presidente del Consiglio Conte, che giustificava questa richiesta e che fu pubblicata dal Corriere il 1 ottobre.

“Il 2 gennaio abbiamo scritto una seconda lettera, che è stata distribuita dall'Ansa e da molti giornali, nella quale reiteravamo la richiesta di 15 miliardi in 5 anni, perché per arrivare al livello della Francia bisogna aggiungere 1 miliardo il primo anno, 2 miliardi il secondo anno, 3 miliardi il terzo fino al quinto anno per arrivare ad aumentare il finanziamento da circa 9 miliardi a circa 14 miliardi. Questi investimenti sono intesi essere suddivisi, come lo sono oggi, in due terzi alla ricerca di base un terzo alla ricerca applicata. Quindi noi abbiamo chiesto sostanzialmente di aumentare il bilancio dello stato in modo strutturale e permanente per tutti gli anni a venire”.

Secondo quanto riporta Nature Italy, il ministro di università e ricerca Gaetano Manfredi si dice soddisfatto di quanto riportato nel Recovery Plan sotto la voce “Dalla ricerca all’impresa” e aggiunge che “ulteriori finanziamenti nazionali faranno salire l’investimento complessivo a oltre 14 miliardi di euro”. Secondo quanto riportato nel testo del documento, infatti, alla ricerca pubblica sono destinati altri 2,95 miliardi provenienti dal Programma Nazionale per la Ricerca (PNR) 2021 – 2027 che, approvato recentemente dal CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica), farà parte del bilancio dello Stato.

14 miliardi nel 2026 era dunque il traguardo che avevano fissato gli esponenti del mondo scientifico italiano nei lori appelli pubblici, il più recente dei quali è stato quello del 2 gennaio scorso. Questo traguardo equivale allo 0,75% del Pil ed è un compromesso rispetto alla proposta originaria e più ambiziosa contenuta nel Piano Amaldi, che era quella di arrivare a spendere l’1,1% del Pil in ricerca pubblica nel 2026.

Inoltre secondo Ugo Amaldi, per come è strutturata la ripartizione degli 11,77 miliardi nelle singole voci del Recovery Plan, ci sarebbe uno sbilanciamento in favore della ricerca applicata e verrebbe meno la proporzione che vorrebbe due terzi dei finanziamenti alla ricerca di base e solo un terzo al quella applicata. Gli 11,77 miliardi, infatti, sono ripartiti in due componenti: la prima è denominata “Rafforzamento di Ricerca e Sviluppo e delle iniziative IPCEI (che si riferisce a Importanti progetti di comune interesse europeo) e vale 7,29 miliardi di euro. La seconda riguarda il “Trasferimento di tecnologia e sostegno all’innovazione” e vale 4,48 miliardi.

“Secondo una mia prima e provvisoria valutazione di quanto riportato nel testo del Recovery Plan possiamo dire che c’è molto meno rispetto a ciò di cui la ricerca italiana secondo noi avrebbe bisogno. Non voglio però con questo negare che si siano fatti dei passi in avanti, sia ben chiaro. Qualche settimana fa ad esempio il ministro Manfredi ha comunicato l’approvazione del Programma Nazionale della Ricerca 2021 – 2027, dove ci sono finanziamenti in più rispetto al passato alla ricerca di base”.

“Bisogna dare atto al ministro Manfredi che ha fatto davvero un gran lavoro” dichiara Amaldi in riferimento al PNR 2021 – 2027. “Ci sono state delle consultazioni nazionali durate diversi mesi, si è prodotto un testo di più di 180 pagine e ci sono dei fondi consistenti, quasi 15 miliardi in 7 anni, che si sovrappongono al piano di finanziamenti europeo Horizon Europe che arriva fino al 2027. Naturalmente poi bisogna fare la somma del PNR e del PNRR e questo è molto difficile da fare. Io ho chiesto al ministro Manfredi di valutare anno per anno qual è il bilancio che avremo per la ricerca a disposizione di università ed enti. Ora sarebbe utile che qualcuno che ha accesso a tutti i dati faccia una somma e ci dica rispetto ai 9,3 miliardi che sono stati spesi nel 2019 quanti ne sono stati spesi nel 2020 e poi, anno per anno, per i 5 – 7 anni a venire”.

Un Paese che voglia giocare un ruolo di primo piano nell’economia della conoscenza non può permettersi di non avere quelle strutture che producono innovazione all'interno delle mura domestiche.

“Perché insisto così sulla ricerca di base? Come discusso in dettaglio nel contributo Pandemia e Resilienza e come sostengono tanti altri, come Luciano Maiani, capofila dei 14 scienziati che hanno firmato le lettere che abbiamo inviato al Presidente del Consiglio, e come del resto sosteneva anche Pietro Greco, occorre finanziare la ricerca di base perché da essa derivano le ricadute positive per la società: sostenendo giovani ricercatori si immette nella società non solo un flusso di persone con competenze, ma anche tecnologie che possono diventare prodotti, e nuovi metodi che possono migliorare la produzione”.

“L’investimento sul trasferimento tecnologico e di innovazione alle imprese è importante”, precisa Amaldi, “ma non risponde alle esigenze di quanto sostenuto da quello che ormai è diventato un movimento culturale e che sostiene che se l’Italia non investe in ricerca di base il futuro del Paese è messo in gioco”.

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