SOCIETÀ

Redistribuzione? Volano per l’economia, non crea (sempre) assuefazione

Lo Stato sociale aiuta l’economia oppure rischia di zavorrarla? La scienza economica prova a dire la sua su una questione da sempre al centro del dibattito politico, impostando il discorso sulle evidenze sperimentali e inquadrandolo da un punto di vista non ideologico. La ricerca in questione, in via di pubblicazione, è stata presentata in anteprima dall’economista Imran Rasul nel corso dell’ultima conferenza dell’Eale (European Association of Labour economists), organizzata dal Dipartimento di Scienze economiche e aziendali "Marco Fanno" dell’Università di Padova.

Lo studioso anglo-pakistano dello University College di Londra, insignito nel 2019 assieme all’italiana Oriana Bandiera del prestigioso Yrjö Jahnsson Award, da diversi anni privilegia tra i suoi ambiti di ricerca quelli che riguardano le ricadute sociali delle scelte economiche: dalla scuola alla formazione del capitale umano, fino alle politiche di redistribuzione della ricchezza.

Un grande esperimento sociale

Lo studio appena anticipato (“Pro-Poor Transfers and Economic Preferences of the Rich ad Poor: Evidence from a Four Year Partial Population Experiment”), condotto assieme a Nicolas Cerkez, Adnan Q. Khan e Anam Shoaib, prende in considerazione gli effetti di un intervento a sostegno delle fasce indigenti sulle scelte e le preferenze degli individui di una determinata popolazione. La ricerca segue un approccio sperimentale reso celebre negli ultimi anni presso il grande pubblico soprattutto da studiosi come Abhijit Banerjee ed Esther Duflo, vincitori assieme a Michael Kremer nel 2019 del Premio Nobel per l’economia per le loro ricerche sulla riduzione della povertà globale.

Il contesto è che a livello globale negli ultimi 30 anni il numero delle persone che vive in povertà estrema è diminuito, passando dal 1,9 miliardi del 1990 a 800 milioni del 2015. Merito della globalizzazione, che ha aperto le porte dello sviluppo a tanti Paesi che prima ne erano esclusi, soprattutto in estremo oriente, ma anche delle politiche nazionali di previdenza e assistenza. Rasul e gli altri si sono chiesti come questi programmi impattino non soltanto sulle condizioni economiche (consumi e risparmi) e sociali (come scolarizzazione e occupazione) dei beneficiari, ma anche su altri aspetti come le percezioni e i valori diffusi in una determinata società, come ad esempio la fiducia nel mercato e nel governo, la visione del lavoro come mezzo di riscatto e di ascesa sociale, il modo di guardare alle disuguaglianze, la desiderabilità della redistribuzione del reddito.

Per rispondere a queste domande i ricercatori hanno sviluppato un vero e proprio esperimento sociale, condotto su larga scala nelle aree rurali del Punjab, in Pakistan. Il programma, condotto con l’ausilio di un’agenzia mista pubblico-privata (il Pakistan Poverty Alleviation Fund, coadiuvato da organizzazioni locali), ha coinvolto nell’arco di quattro anni 19.000 famiglie, ad alcune delle quali sono stati trasferiti circa 620 dollari: oltre la metà del reddito annuale pro capite in Pakistan (che è circa un trentesimo circa di quello italiano). E gli effetti economici e sociali dell’operazione, stando ai dati raccolti, sono stati molto positivi, sia nell’aumento dei consumi e dei risparmi che nella riduzione delle disuguaglianze.

A questo punto però i ricercatori sono andati oltre, interrogando il campione di persone esaminato rispetto alle misure adottate e in generale alle politiche di welfare. E i risultati sono stati sorprendenti. Dai dati presentati infatti emerge che l’operazione ha riscosso consensi non solo tra i beneficiari, ma anche tra i poveri esclusi dal sussidio e persino tra le persone con reddito più alto, in quest’ultimo caso in misura addirittura superiore rispetto agli stessi percettori. La stessa classe media insomma riconosce la bontà delle misure a favore dei più poveri, soprattutto dopo averne sperimentato gli effetti benefici sulla società e l’economia. In tutte le fasce di reddito è inoltre aumentata la fiducia verso il governo, il mercato e il lavoro. Diversi tra gli agricoltori più poveri hanno infatti approfittato del sussidio per migliorare la produzione o per cambiare occupazione, buttandosi in particolare sul piccolo artigianato: i trasferimenti in denaro insomma non tolgono necessariamente la voglia di lavorare, ma possono anzi essere lo stimolo a dare di più.

Tutti all'inizio apprezzano gli effetti della redistribuzione, anche i più ricchi

Attenzione però: a botta calda tutti soddisfatti, ma con il passare del tempo l’influenza dell’iniziativa sulle opinioni delle persone sembra scemare. Finché, quattro anni dopo l’intervento, le preferenze dei beneficiari che dei non beneficiari (non poveri, o poveri non inclusi nel programma) tornano grosso modo allo schema iniziale.

Non sempre le politiche redistributive portano consenso

“I dati presentati da Rasul sono molto interessanti – spiega a Il Bo Live l’economista dell’Università di Padova Lorenzo Rocco –. Storicamente secondo il modello classico uno dei problemi della redistribuzione è il rischio che i beneficiari chiedano sempre più, facendo crollare il sistema. I dati presentati da Rasul sembrano invece dire il contrario, pur in un contesto particolare come il Pakistan: non ci sono infatti stati né un aumento esponenziale della richiesta di spesa, né una spaccatura e una polarizzazione tra i beneficiari e i contribuenti più facoltosi”.

La misura sperimentata ha mostrato insomma un impatto limitato sulle convinzioni dei soggetti, comprese quelle politiche: “Chi vota a sinistra normalmente propende verso la redistribuzione della ricchezza, mentre a destra si preferisce una tassazione più bassa. Il fatto che nell’esperimento le preferenze non siano cambiate può anche significare che nel periodo medio-lungo i bacini politici di destra e sinistra tendono a rimanere abbastanza stabili”.

Dopo quattro anni tutti, sia i beneficiari che gli esclusi, tendono a tornare sulle loro posizioni

Dati e riflessioni interessanti anche per un raffronto con la situazione italiana, dove negli ultimi tempi si discute animatamente di Stato sociale e di Reddito di cittadinanza. “Certamente il Rdc è una misura abbastanza particolare – osserva Rocco –; oggi comunque osserviamo che anche i più ostili piuttosto che di abolizione parlano di riforma, soprattutto per la parti riguardanti il targeting e le politiche del lavoro, ma senza buttare via il tema della lotta alla povertà. Questo sembrerebbe andare nella direzione indicata da Rasul: la misura oggi riceve una certa approvazione trasversale, ma, se i risultati trovati da Rasul in Pakistan si applicassero anche all’Italia, con il passare del tempo si tornerebbe indietro e qualcuno comincerebbe di nuovo a storcere il naso”.

Le politiche di redistribuzione sono un prerequisito democratico, oppure un lusso che può essere pagato solo con la crescita? “Da una parte posso redistribuire solo se cresco, dall’altra quando non possono redistribuire le società vanno in difficolta. Lo Stato sociale nasce a fine ‘800 in Germania proprio perché Bismarck vuole conquistare il sostegno delle masse operaie alla sua politica di espansione e di potenza in Europa. Così come l’allargamento del suffragio elettorale è servito anche a garantire che le promesse di trasferimenti fatte alle classi popolari, soprattutto per sostenere lo sforzo bellico durante il primo conflitto mondiale, sarebbero state mantenute. La coesione nazionale si compra con la redistribuzione, soprattutto in guerra”.

Il problema è che rispetto a un tempo oggi le possibilità di crescita economica, che hanno sostenuto la costruzione dei moderni sistemi di welfare in Europa, appaiono molto più limitate. "Lo Stato sociale si basa sul fatto che l’economia cresca, perché solo questo permette di redistribuire le risorse senza caricare troppo dal punto di vista fiscale le classi che devono pagare. In assenza di crescita il modello va in crisi”. Un sistema messo dunque a rischio dalla stagnazione economica, ma anche dalla concorrenza tra diversi sistemi fiscali. “L’unica possibilità da questo punto di vista è il coordinamento gli Stati, come ipotizzato durante l’ultimo G20. Oggi chi paga non sono più i ricchi ma la classe media, per il quale il peso della fiscale diventa sempre più schiacciante. Per questo è importante allargare la base imponibile, tassando ad esempio le grandi multinazionali. Abbandonare la redistribuzione è pericoloso: si rischia un nuovo periodo di lotte sociali intensissime”.

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