SOCIETÀ

Referendum in Svizzera: l'ennesima sfida per l'Unione europea

Dopo la Gran Bretagna sarà la Svizzera il prossimo paese a lasciare l’Unione Europea? Lasciare si fa per dire: la Confederazione non è paese membro dell’Ue (fa parte invece dal 1960, attualmente assieme a Norvegia, Islanda e Liechtenstein, dell’Organizzazione interstatale “Associazione Europea di libero scambio” che include gli stati che non volevano o non potevano far parte dell’Unione). Ma Europa e Svizzera sono comunque legate da accordi bilaterali che regolano in maniera dettagliata determinate materie, dal commercio alla libera circolazione delle persone, dal trasporto alla ricerca. Ebbene, il prossimo 27 settembre i cittadini svizzeri saranno chiamati alle urne per esprimersi su un referendum proposto dall’Unione Democratica di Centro (Udc), un partito della destra nazionalista, per “un’immigrazione moderata”. La norma al voto, che in linea di principio vorrebbe ridurre gli ingressi degli immigrati nel Paese, si propone di fatto di cancellare l’accordo di libera circolazione delle persone con l’Europa. La votazione popolare era prevista il 17 maggio, ma era stata poi rinviata a causa della pandemia di Covid-19. C’è però un ulteriore problema: all’interno degli accordi sottoscritti dalla Svizzera con l’Ue (“Accordi Bilaterali I”), c’è una clausola detta “ghigliottina” che impedisce di disdirne uno soltanto lasciando in vita gli altri. O tutti o nessuno. Dunque, se salta la libera circolazione, vanno in fumo tutti gli altri accordi bilaterali con l’Unione Europea. Compresi quelli che garantiscono, ad esempio, la soppressione delle imposte doganali su import-export.

Se salta la libera circolazione, vanno in fumo tutti gli altri accordi bilaterali con l’Unione Europea

Da qui il parallelo con la Brexit, o “Swexit”, per gli appassionati di neologismi. Le conseguenze dell’eventuale vittoria dei “Sì” sarebbero di enorme portata per gli svizzeri e per tutti gli stranieri che lì lavorano (basti pensare a quanti risiedono a ridosso delle frontiere, italiani inclusi). L’introduzione del nuovo articolo 121b nella Costituzione federale blinderebbe le frontiere elvetiche. La Confederazione avrebbe 12 mesi di tempo per negoziare con Bruxelles la fine degli accordi. E qualora l’obiettivo non fosse raggiunto, potrebbe procedere alla rescissione unilaterale nei 30 giorni successivi. L’obiettivo politico dei nazionalisti dell’Udc (al pari di altri partiti europei della destra nazionalista) è bloccare l’ingresso nel territorio nazionale ai lavoratori stranieri, visti alla stregua di “invasori”. «Non vogliamo una Svizzera con 10 milioni di abitanti (oggi sono 8,5 milioni, ndr)», ha spiegato al Corriere del Ticino il presidente dell’Udc, Albert Rösti. «La Confederazione deve tornare a regolare l’immigrazione in modo indipendente, come faceva prima della libera circolazione delle persone (accordo firmato nel 2002) e come fanno molti Stati di successo». Per poi aggiungere, all’assemblea dei delegati del suo partito: «L’immigrazione in Svizzera è fuori controllo e senza misura».

La “vittoria” del 2014

Non è la prima volta che gli esponenti dell’Udc tentano la strada della consultazione popolare per chiudere le frontiere (ma il tema è un’ossessione per gli svizzeri: le prime proposte in Parlamento di mettere un tetto agli arrivi degli immigrati, tutte respinte, risalgono agli anni 60; il primo referendum, bocciato per un soffio, al 1970). Per restare alla storia più recente: nel 2011 il partito conservatore aveva lanciato la campagna “Contro l’immigrazione di massa”, culminata poi nel referendum del febbraio 2014 (la fotografia dei numeri dell’epoca dice che a fronte di 8 milioni di abitanti in Svizzera, quasi 2 milioni erano stranieri): in quell’occasione vinsero i Sì, con il 50,3% dei voti, con una maggioranza ottenuta in 17 cantoni su 26. Il voto popolare autorizzava la Svizzera a gestire autonomamente l’immigrazione degli stranieri, a imporre tetti massimi annuali “in funzione degli interessi globali dell’economia svizzera e nel rispetto del principio di preferenza agli svizzeri”.

Pochi mesi dopo l’Unione Europea intervenne duramente, a raffreddare gli entusiasmi della destra. Catherine Ashton, allora Alto rappresentante per gli affari esteri dell’Ue, ribadì: «Rinegoziare l’accordo in vista dell’introduzione di limiti quantitativi e di quote, compresa la scelta nazionale in favore dei cittadini svizzeri, costituisce una contraddizione fondamentale». Lo stallo è proseguito fino all’ottobre 2016 quando il governo elvetico ha partorito sì una nuova legge che teneva conto del risultato del voto, ma in una versione soft, meno drastica. Ad esempio: il Governo può ricorrere a misure correttive, come i tetti agli ingressi, solo qualora il fenomeno migratorio dall’Unione Europea dovesse superare un certo livello. Ribadendo comunque che “chi entra in Svizzera è tenuto a conoscere la lingua e il sistema giuridico svizzero”. Tutti d’accordo, tranne l’Udc («Questo è il funerale della democrazia»): che ha perciò deciso di tentare nuovamente la via del referendum, addolcendo il nome della campagna (“per un’immigrazione moderata”) ma di fatto ribadendo l’obiettivo della chiusura delle frontiere e l’applicazione “alla lettera” di quanto già approvato nel 2014, costi quel che costi.

E costerebbe parecchio, almeno stando alle previsioni che in questi mesi i quotidiani svizzeri stanno pubblicando. Il Corriere dell’italianità, portale d’informazione degli italiani in Svizzera, stima che l’uscita dagli “Accordi Bilaterali I” comporterebbe un mancato introito complessivo di circa 30 miliardi di franchi svizzeri l’anno (il rapporto di cambio con l’euro è di poco al di sotto della parità). Mentre un rapporto del Seco  (Segreteria di Stato dell’Economia) sostiene che l’uscita dagli Accordi comporterebbe una flessione tra il 5 e il 7% del Pil svizzero entro il 2035. «A parte bollare come anacronistica l’intera operazione, qui è in gioco la stessa sopravvivenza della Confederazione Elvetica, visto che l’Unione europea è il suo principale partner commerciale», scrive Paola Fuso su Il Corriere dell’Italianità in un articolo pubblicato il mese scorso. «Se tutti gli accordi cadono, di cosa vivrà la Svizzera?» Per non parlare del rischio di compromettere gli “Accordi Bilaterali II”, il secondo pacchetto di collaborazioni con l’Unione Europea su temi quali turismo, sicurezza, ambiente e cultura.

Tutti contrari, ma la partita è aperta

Vinceranno anche questa volta i nazionalisti? Passeranno gli slogan “Switzerland first" oppure “stop agli stranieri che costano meno e ci portano via il lavoro”? Difficile dirlo, ma di certo governo e Parlamento elvetico questa volta non arrivano impreparati all’appuntamento, già scottati come sono dalla ferita del 2014. Il Consiglio Federale (di fatto il governo svizzero, composto da 7 membri), per voce della ministra della giustizia Karin Keller-Sutter, ha raccomandato ai cittadini di «respingere l’iniziativa di limitazione: l’annullamento dell’accordo sulla libera circolazione con l’Unione Europea sarebbe peggio della Brexit». Il governo ha poi aggiunto: «Un tale scenario limiterebbe le possibilità d'esportazione per le aziende svizzere, minaccerebbe vari impieghi e comporterebbe un aumento dei prezzi dei beni di consumo». Anche le altre forze politiche, da destra a sinistra, hanno preso le distanze dall’Udc, schierandosi tutte a favore del mantenimento della libera circolazione dei cittadini europei. Ugualmente i due rami del Parlamento hanno respinto le proposte dell’Udc (che ha poi raccolto le firme necessarie per far indire il referendum). Contrari anche i sindacati. E c’è chi dice che Bruxelles sia estremamente preoccupata dallo sviluppo della situazione. Secondo i sondaggi il “No” sarebbe in vantaggio, ma il precedente del 2014 frena qualsiasi entusiasmo.

C’è inoltre da notare, come riportato in un recente articolo da The Local Switzerland, che la pandemia ha portato a un aumento del sentimento nazionalista svizzero, un’insofferenza piuttosto diffusa e, dunque, poco “governabile”, che potrebbe quindi lasciar spazio a qualche sorpresa alle urne.  Il presidente delle Acli (Associazioni Cristiane Lavoratori Internazionali) in Svizzera, Giuseppe Rauseo, ha spiegato così il suo No al referendum: «In caso di vittoria dell’iniziativa l’Accordo sulla libera circolazione (Alc) delle persone tra Confederazione elvetica e Ue, che regola la vita di più di un milione e 700mila persone in Svizzera, verrebbe abolito con conseguenze gravi in termini di perdita dei diritti, quali soggiorno, ricongiungimento familiare, prestazioni sociali. Senza l’accordo si tornerebbe indietro di anni e moltissime persone, tra cui i numerosi cittadini italiani in Svizzera, si ritroverebbero in una situazione di precarietà economica e sociale drammatica. L’iniziativa andrebbe a colpire lavoratori e lavoratrici, famiglie, studenti e persino i minori».

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