SOCIETÀ

Sanders e Corbyn: profetici o solo sconfitti?

Così anche Bernie si è rassegnato. Dopo giorni di riflessioni (e di pressioni da parte della stampa e dei maggiorenti del Partito), alla fine ha annunciato ufficialmente il suo abbandono dalla corsa per le primarie democratiche. Del resto già da diversi giorni le prospettive della sua candidatura volgevano al peggio: soprattutto dopo che il Big Tuesday, lo scorso 3 marzo, aveva rilanciato in maniera piuttosto inaspettata la candidatura di Joe Biden.

A poco più di due mesi e mezzo di distanza quindi anche Sanders ha seguito i passi di Jeremy Corbyn, costretto a lasciare la guida dei laburisti britannico dopo la disastrosa sconfitta elettorale contro Boris Johnson. Del resto i due leader avevano diverse cose in comune: non più verdi d’età (70 anni Corbyn, 78 Sanders) ma popolarissimi tra i giovani, tutti e due portabandiera nelle patrie del neoliberismo di idee radicali, se non dichiaratamente socialiste, ed entrambi – dopo un’onesta carriera ai margini – travolti da una popolarità inaspettata ed elevati a simboli di una purezza perduta, ideologica e personale, rispetto a partiti che per anni avevano guardato soprattutto all’elettorato centrista.

Sanders annuncia lo stop alla sua campagna per le primarie democratiche

Ora in qualche misura si torna alla normalità. Joe Biden è l’ex vice di Obama, al quale non ha fatto ombra nemmeno per un istante. Cosa che sicuramente contribuisce alla sua popolarità presso l’elettorato afroamericano, essenziale per la corsa alla Casa bianca, ma che non garantisce affatto il tipo carisma che gli elettori americani cercano in un leader. Definito una “persona per bene” da Sanders nel suo tiepido endorsement, per 36 anni senatore del piccolo stato del Delaware, Joe Biden è percepito da molti come una tipica personificazione dell’establishment democratico. Eppure è stato a lungo uno dei membri più “poveri” del Congresso e ha sempre mostrato una predilezione per i mezzi pubblici: in particolare le ferrovie, che nel 2011 gli hanno dedicato la stazione da cui ogni settimana parte per Washington. È inoltre noto anche per la sofferta storia familiare – la prima moglie e la figlia piccola morte in un incidente, il figlio Beau perso per un tumore al cervello – prima che l’altro membro della prole, il lobbista Hunter, fosse coinvolto in uno scandalo sui suoi rapporti con il governo ucraino.

Sull’altra sponda dell’oceano intanto è salito alla guida dei laburisti Sir Keir Starmer, a sua volta considerato espressione della soft left (nonostante anche recentemente si sia definito socialista). Entrato in politica nel 2015, dopo gli studi a Oxford e una carriera prima da avvocato e poi da pubblico ministero tra i più importanti del Regno Unito, finora si era messo in luce soprattutto come portavoce del Partito per la Brexit (si è più volte dichiarato favorevole a un secondo referendum), di fronte a un Corbyn che sull’argomento si è sempre mostrato titubante. Tre fratelli, padre operaio specializzato e madre infermiera – entrambi attivisti: il suo nome viene da Keir Hardie, sindacalista scozzese e fondatore del Labour Party – Starmer è un figlio della working class che ce l’ha fatta, a suon di voti brillanti, borse di studio e forza di volontà. Come Obama e Biden, figlio di un venditore di auto, è insomma un simbolo della bontà del sistema, piuttosto che della necessità di riforme. Niente di più lontano dalle rivoluzioni promesse da Sanders e da Corbyn.

Negli ultimi anni aveva suscitato attenzione l’ascesa nei due Paesi-guida dell’anglosfera della cosiddetta “sinistra radicale”, spesso messa in relazione speculare con quella di leader “populisti” come Donald Trump e Boris Johnson. Oggi è forte la tentazione di considerare quella fase prematuramente conclusa, anche se rimangono ancora dubbi sulle conseguenze per le più antiche democrazie occidentali. Sanders e Corbyn, indeboliti ma non del tutto appannati nel loro carisma, solo con la loro leadership hanno in parte già raggiunto risultati impensabili, ponendo questioni che d’ora in avanti non sarà più facile evitare nemmeno per chi viene dopo. A cominciare dall’assistenza sanitaria, che in tempo di Coronavirus proprio nei due Paesi – oggi tra i principali focolai della pandemia – sta mostrando tutte le sue falle.

Sanders e Corbyn fanno un passo indietro proprio mentre sta esplodendo una delle più grosse crisi politiche e sociali degli ultimi decenni

Si legge anche in quest’ottica la scelta di Sanders di lasciare il nome sulle schede alle primarie democratiche, nonostante lo stop alla campagna elettorale. “Si tratta di una scelta inedita, ma del resto lui è sempre stato un candidato un po’ anomalo – spiega Fabrizio Tonello, docente di scienza politica a Padova –. Le votazioni sono ancora moltissime e l’obiettivo è di accumulare delegati per contribuire a definire la piattaforma del Partito alla prossima convention di Milwaukee, se mai si riuscirà a tenerla”. Quello che è certo è che oggi il Partito Democratico statunitense è spostato molto più a sinistra, come ha ammesso lo stesso Obama nel suo discorso di endorsement per il suo vice: “Se corressi oggi farei altre scelte e sceglierei una diversa piattaforma rispetto al 2008 – ha detto l’ex presidente –. Il mondo è cambiato, (…) Joe e Bernie lo sanno. Per questo Joe ha una delle piattaforme più progressiste mai presentate da un candidato alle presidenziali”.

Oggi comunque tutto viene misurato secondo il metro imposto dall’emergenza pandemia, che non rischia solamente di influenzare il cammino delle presidenziali ma sta già provocando un terremoto sociale dalle conseguenze difficilmente calcolabili. Nelle ultime tre settimane circa 22 milioni di americani hanno perso il lavoro, portando il tasso di disoccupazione vicino al 18%: un livello mai visto a memoria d’uomo. Negli ultimi giorni giornali e social hanno rilanciato le immagini di poveri e disoccupati in fila presso mense dei poveri e food bank. Le stesse dinamiche di diffusione dell’epidemia rischiano inoltre di esasperare le disuguaglianze sociali: al momento infatti il virus miete vittime soprattutto tra le minoranze, a cui appartiene la maggioranza degli individui e delle famiglie che non dispongono di un’adeguata assicurazione sanitaria. Situazione solo in parte analoga a quella del Regno Unito, dove però il Nhs è in grande difficoltà e le conseguenze della pandemia sulle classi povere si preannunciano ugualmente dolorose.

Uno scenario che allo stesso tempo getta luce sulle debolezze e le ingiustizie dei nostri sistemi socio-economici e mette in discussione una globalizzazione basata sulla competizione tra Stati. Tanto che Slavoj Žižek, nell’e-book Virus appena pubblicato da Ponte alle grazie, ha scritto espressamente della necessità di “una nuova forma di quello che un tempo chiamavamo comunismo”, basato sulla collaborazione tra individui e comunità e sul superamento dei particolarismi. La nuova prossima imponente recessione mondiale farà probabilmente esplodere ulteriormente disuguaglianze e divisioni: a pagare il conto saranno ancora una volta soprattutto i poveri?

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