Corbyn al Parlamento britannico durante un question time. Foto: Reuters
Ha condotto il Labour Party alla sua più disastrosa sconfitta elettorale dal 1935, eppure tra i membri del partito rimane il più popolare. Secondo il sondaggio condotto dalla piattaforma YouGov il 71% degli iscritti ha un’opinione positiva del leader dimissionario, contro il 70% di Ed Miliband, altro sconfitto alle elezioni, e il 67% di John Smith, che guidò il partito prima di Tony Blair. Quel Blair che, da leader più vincente della storia dei laburisti (tre elezioni portate a casa e 10 anni da premier), è appena decimo con il 37% di opinioni favorevoli, ben dietro non solo a Neil Kinnock e a Michael Foot, ma anche al suo ex vice Gordon Brown.
A 70 anni Jeremy Corbyn torna quindi alla sua vocazione di perdente di successo, popolarissimo tra i suoi ma incapace di convincere la classe media. Sta anche in questo il suo paradosso, peraltro condiviso con personaggi come Bernie Sanders: anche lui ‘grande vecchio’ amatissimo soprattutto dai giovani, che vedono in lui l’emblema della purezza ideologica e della coerenza. Del resto Corbyn non si sarebbe forse mai aspettato di trovarsi un giorno a correre per la poltrona di primo ministro. Figlio di un’insegnante di matematica e di un ingegnere elettrico, entrambi iscritti al partito laburista, il suo curriculum giovanile è quello di un rampollo della buona borghesia di tendenze liberal, compresi l’attivismo pacifista e le marce per il Vietnam, e una parentesi di due anni passata in America Latina, dove partecipa alle proteste contro il regime militare brasiliano e assiste all’effimera affermazione di Salvador Allende in Cile.
Jeremy Corbyn is the most popular leader of the past century among Labour members (partly because a quarter don’t seem to know who Clement Attlee is)
— YouGov (@YouGov) January 21, 2020
Corbyn 71% favourable view
Miliband 70%
Smith 67%
Attlee 66%
Brown 65%
Wilson 62%
Blair 37%https://t.co/Zx9bgxPaaj pic.twitter.com/7nB3NIcE2z
Dopo anni di gavetta al servizio del partito viene eletto la prima volta al parlamento nel 1984, in pieno thatcherismo. Qui appoggia la fallimentare lotta dei minatori contro il governo e, da fautore della riunione dell’Irlanda del nord alla Repubblica Irlandese, spinge per il dialogo con l’Ira, incontrando spesso il leader del Sinn Féin Gerry Adams. Quanto basta insomma per gettare il fumo negli occhi dell’elettorato conservatore, divenendo una delle icone del vecchio Labour, preso dalle sue battaglia ideologiche e staccato dalla realtà di un mondo sempre più globalizzato. Simpatizza anche per la causa palestinese, e questo durante l’ultima campagna elettorale gli verrà rimproverato dal rabbino capo del Regno Unito Ephraim Mirvis, che dalle colonne del Times lo accuserà addirittura di avallare l’antisemitismo nel suo partito.
Con trascorsi del genere è abbastanza ovvio che all’avvento del ‘New Labour’ di Blair Corbyn finisca ai margini. Un po’ disprezzato e un po’ tenuto in disparte, stile ultimo indiano nella riserva, Corbyn macina record nel votare contro le proposte del suo stesso governo, contro gli ordini del partito, contro tutto quello che contrasta con la sua coscienza e con la sua visione politica. In particolare dal 2003 si batte contro la partecipazione del Paese alla guerra in Iraq, partecipando a decine di incontri e di marce e arrivando ad appoggiare la proposta di una commissione parlamentare d’inchiesta. Così, poco a poco, si guadagna la stima di una parte crescente dei colleghi e del pubblico, non solo all’interno del suo partito. La sua coerenza, l’apparente disinteresse per i giochi di potere, gli stessi modi semplici e il vestire dimesso (è vegetariano e non ha un’automobile, si sposta in bici o in treno) portano naturalmente a identificarlo con un’idea diversa di politica, in un mondo di grisaglie e regimental.
Quando Ed Miliband si dimette dopo la sconfitta alle elezioni del 2015 arriva il suo momento, contro la stessa volontà dell’establishment del partito. Il vecchio peone ribelle – in quel momento ha 66 anni, 20 in più del suo predecessore – rompe gli schemi e sbaraglia via via colonnelli e generali. Sfida le politiche di austerity e vuole tagliare le spese militari, alzare le tasse per i ricchi e aumentare le politiche di welfare; risultato: tanti, soprattutto giovani e lontani dalla politica, accorrono in massa a votarlo. E alla fine la sua vittoria nelle elezioni interne del partito è travolgente: il 12 settembre 2015 viene eletto leader con il 59,5% dei voti, staccando di oltre 40 punti i più diretti inseguitori.
“ Dopo la Brexit Corbyn non vuole o non riesce a sfruttare le difficoltà dei conservatori
Di colpo il Paese più conservatore e tradizionalista d’Europa si trova con il leader dell'opposizione più di sinistra e antisistema. È chiaro da subito che sarà difficilissimo: inizia subito il tiro al bersaglio da parte dei media e del suo stesso partito, che non perdono occasione di coglierne incertezze ed errori. A squassare tutto però sarà soprattutto la Brexit, rispetto alla quale Corbyn si mostra fin dall’inizio dubbioso e perplesso, sicuramente contrario al Leave ma non convinto del Remain. Per lui l’Europa attuale è soprattutto quella dei mercati e dei tecnocrati di Bruxelles: non proprio gli elementi adatti a scaldargli il cuore. Il referendum arriva nel 2016, appena pochi mesi dopo la sua elezione, e spariglia il quadro politico: il premier David Cameron è costretto alle dimissioni e gli succede Theresa May. Una situazione di debolezza di cui Corbyn non sa approfittare: il suo atteggiamento perennemente sulla difensiva non riesce a catalizzare il consenso di quella parte del Paese che pure vorrebbe rimanere nell’Ue.
Se le elezioni anticipate del 2017 rappresentano un ottimo risultato per il Labour, che raggiunge il 40% guadagnando quasi 10 punti, le consultazioni del 12 dicembre 2019 sono un disastro. I conservatori, sfruttando il patto di desistenza con il Brexit Party di Nigel Farage, guadagnano poco più di un punto percentuale, ma d’altra parte i laburisti ne perdono addirittura otto: fanno due milioni e mezzo di voti e 60 seggi in meno. Eppure i suoi elettori, come abbiamo visto, continuano a volergli bene e nessuno, nemmeno tra i suoi avversari, mette in dubbio la sua onestà e la sua coerenza.
Intanto la lotta per la successione, dopo la rinuncia di Jess Phillips, la candidata più ‘blairista’, è al momento ristretta a quattro nomi: Rebecca Long-Bailey (appoggiata dai sindacati e considerata ideologicamente vicina a Corbyn), Keir Starmer (portavoce laburista per la Brexit), Lisa Nandy ed Emily Thornberr. Tre donne e un uomo, a significare che dopo una batosta come quella dell’ultima tornata elettorale al vertice ci vuole una scossa. E proprio il Labour, che da sempre si identifica con le tematiche dei nuovi diritti e della parità di genere, finora non ha mai avuto una figura lontanamente paragonabile a Margaret Thatcher o alla stessa May. Si vedrà, altrimenti ancora una volta la rivoluzione sarà rimandata.