SCIENZA E RICERCA

La sanità e il coronavirus: punti di forza e di debolezza del nostro Sistema sanitario

Primi in Europa a essere travolti dall’emergenza coronavirus, abbiamo reagito con più vigore di molti altri paesi, e abbiamo tenuto. Il “caso italiano” viene oggi raccontato dalla stampa tecnica e no di tutto il mondo come esempio di buona politica. Ma non fermiamoci qua e anzi cogliamo l’occasione per riflettere su quello che è successo, e su punti di debolezza e punti di forza del nostro Sistema sanitario nazionale. Il libro di Marco Geddes da Filicaia, epidemiologo di lunga esperienza, è un ottimo portolano per orientarsi in questa storia. Si intitola “La sanità ai tempi del coronavirus” (Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, Settembre 2020): è stato scritto in forma di instant book nei giorni del lockdown, ma è solido nelle argomentazioni e nella bibliografia. E alla fine fa venire voglia di riassumerlo così: difendiamo il nostro Sistema sanitario nazionale. Perché? Beh, cominciamo dai suoi lati positivi.

«Il primo punto di forza del nostro Sistema sanitario nazionale è che è accessibile a tutti. Lo è di diritto e lo è anche di fatto per la fase acuta (poi, va bene, potremmo discutere di quanto lo sia effettivamente nel caso di malattie croniche o dell’assistenza specialistica). Noi siamo intervenuti ricoverando due persone cinesi allo Spallanzani all’inizio dell’epidemia. E abbiamo curato l’industriale assicurato, la centenaria, lo studente straniero. Noi curiamo tutti. Un po’ è il nostro senso di responsabilità, un po’ è perché ci atteniamo all’articolo 32 della Costituzione. Non solo: è anche l’approccio più efficace. E poi, fattore non trascurabile, gli operatori sanitari italiani hanno il senso di appartenenza a un sistema sanitario e hanno agito compatti. Anche la popolazione lo sente, e sente il sistema sanitario come proprio».

Però ci sono stati anche elementi di debolezza, e lei li sottolinea tutti… il primo?

«Beh, siamo arrivati all’emergenza con una situazione di personale molto ridotto, situazione che si è instaurata negli ultimi dieci anni. E con una possibilità di recupero solo parziale. Si consideri che immettere nuovo personale in emergenza non significa immettere personale esperto. E poi il nostro personale sanitario è anziano, sia medici sia infermieri sono anziani, e questo comporta problemi di affaticamento fisico e psicologico.

Un altro elemento importante di debolezza del sistema è la medicina territoriale, che è diventata carente».

Avere, di fatto, tanti sistemi regionali è una debolezza?

«Indubbiamente lo è. La non armoniosa applicazione dei protocolli è dovuta a indirizzi politico gestionali troppo diversi tra le diverse regioni. In altri termini: la cornice organizzativa di un sistema sanitario non è indifferente rispetto ai suoi obiettivi e valori. E questo lo si è visto in maniera drammatica nel confronto tra Lombardia e Veneto.

Un altro elemento, legato a questo, è la debolezza del livello nazionale. Nell’ultimo ventennio è scemata la capacità di indirizzo e orientamento degli organi nazionali, a volte per mancanza di finanziamenti, in altri casi per un indebolimento strutturale. E così questi non hanno esercitato una governance forte. Invece ritengo che a fronte di un’autonomia regionale, che ha i suoi elementi positivi, ci debba essere un rafforzamento della governance centrale. Il che non significa solo linee guida e procedure, ma anche un indirizzo culturale autorevole».

La questione economica, i tagli alla sanità, sono stati una debolezza?

«Tantissimo. I finanziamenti sono stati persi sia sul fronte della spesa corrente (vedi taglio del personale) sia a livello di investimenti. Tra questi vi è stato il territorio. Ma gli investimenti bisogna sapere dove e come farli e organizzarli. E questo dovrebbe anche essere un tema all’ordine del giorno di fronte a una potenziale grande massa economica che sembra che stia per arrivare».

Altra debolezza su cui lei punta il dito nel libro: la mancanza di programmazione.

«La storia del piano pandemico rimasto lì mi ha molto colpito… dirigendo un ospedale in centro a Firenze ho vissuto il momento storico in cui uno degli obiettivi sensibili del terrorismo internazionale sembrava che fossero gli Uffizi: in quel caso i piani c’erano, ed erano stati diffusi e testati. Mentre riguardo a una possibile pandemia, anche influenzale (in fondo, non è diverso), c’era un piano. Ma è rimasto nel cassetto».

Poi c’è l’altra programmazione: quella della formazione di personale specialistico.

«Quella dei posti di specializzazione è quasi una cosa ridicola. Si sa perfettamente quanti pensionamenti, e in che ambiti, ci saranno. Perciò si conoscono le potenziali carenze del sistema. E si sapeva che l’imbuto formativo è successivo alla laurea, nelle scuole di specializzazione. Non solo: si sa benissimo che non è un recuperabile in poco tempo. Eppure…

Aggiungiamo anche che questa programmazione non può essere fatta dalle università ma dal Sistema sanitario. Poi l’università può porre i suoi temi, come quello della capacità, strutturale e didattica, delle sedi. Invece da noi per anni hanno pesato elementi baronali, di distribuzione delle cattedre. Cioè spesso chi aveva più peso aveva più posti di specializzazione, tutto qui, senza riguardo alle vere necessità del paese».

Veniamo al livello sovranazionale. Nel suo libro si sente un po’ di imbarazzo verso l’Oms. Lei sembra volerla insieme difendere e accusare…

«L’Oms è sotto attacco, soprattutto da parte del Presidente statunitense. D’altra parte la sua organizzazione non è adeguata nella misura in cui non le vengono attribuiti sufficienti finanziamenti pubblici, via via ridotti rispetto a quelli privati. E ben vengano i finanziamenti privati, solo che poi sono vincolati a specifici obiettivi e piani.

Un altro elemento critico è che non avendo l’autorità per promuovere indagini dirette e autonome nei paesi aderenti, l’Oms deve quindi inevitabilmente barcamenarsi. Quindi ci dobbiamo porre il problema di come rafforzarla.

Anche perché l’idea che l’Oms sia al servizio della Cina è una cosa che non sta in piedi. Il capo tecnico dell’Oms per il Covid-19 è americano, il capo per la gestione dei casi è americano, il direttore generale dei laboratori di virologia è americano. O sono tutte spie della Cina… ma davvero pensarlo non ha senso!».

E l’Europa qui che ruolo ha avuto?

«Beh ma l’Europa dal punto di vista sanitario ha competenze ristrette. Se invece si parla della solidarietà tra paesi, c’è stato quel riflesso per cui ognuno ha pensato che fosse un problema che riguardava altri. Il fatto che lo abbiamo pensato anche noi italiani rispetto alla Cina tutto sommato era giustificabile dalla distanza. Ma che lo abbia pensato la Francia rispetto a noi lo è molto meno.

Va detto che però accanto a questo si è vista una collaborazione scientifica, anche con la Cina, intensissima e immediata. E questo è un dato davvero importante».

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