SCIENZA E RICERCA

Aree protette gestite da privati: il caso delle riserve africane

Secondo l’iniziativa Protected Planet, che monitora l’estensione di aree naturali protette nel mondo, nel continente africano sono attualmente sotto protezione circa il 14% degli ecosistemi terrestri e d’acqua dolce e oltre il 16,5% di quelli marini. Sono stime incoraggianti, ma che mostrano come i Paesi africani siano ancora lontani dal raggiungere l’ambizioso obiettivo globale dettato dal Global Biodiversity Framework, che consiste nel porre sotto protezione il 30% di tutti gli ecosistemi terrestri e marini entro il 2030 (“30x30”).

Non sempre, però, la gestione delle aree protette è un affare semplice. Le difficoltà sono diverse: dalla lotta al bracconaggio alla necessità di venire a patti con le comunità locali che vivono (a volte da secoli) in quei territori, alla ricerca un bilanciamento tra tutela ambientale e sviluppo economico.

Per quanto questi problemi siano comuni nel continente africano (e non solo), alcune regioni sono più problematiche di altre. In alcuni casi, gli Stati si trovano in seria difficoltà nel controllo delle aree protette. Per questo, è sempre più comune la scelta di appaltare la gestione di questi territori, a volte molto vasti e importantissimi per i Paesi a cui essi appartengono, a realtà private – ad esempio ONG – che si occupano di proteggere la biodiversità locale da bracconieri, gruppi armati e dalle estrazioni illegali di risorse naturali.

In uno studio pubblicato sulla rivista scientifica PNAS, un gruppo di studiosi di alcune università statunitensi e della World Bank ha presentato i risultati di un’analisi che evidenzia luci e ombre della scelta, da parte di molti governi africani, di delegare la gestione delle aree protette a entità private. La ricerca si è concentrata su una ONG, African Parks, considerata rappresentativa dell’intero settore per via della sua importanza nel continente, legata alla grande quantità di aree protette che gestisce in Africa (più di ogni altra ONG attiva nel continente).

Ad oggi, African Parks gestisce più di 200.000 km2 distribuiti tra 22 aree protette in 12 Stati africani. La ONG, inoltre, pianifica di aumentare il proprio range d’azione, arrivando a gestire 30 aree protette entro il 2030 e, potenzialmente, fino a 90 nel lungo termine. In genere, i mandati sono piuttosto lunghi, per una durata media di circa 20 anni. La scommessa di questa organizzazione è prendere in gestione soprattutto aree protette degradate, dove sono state registrate significative riduzioni della fauna selvatica ed estinzioni locali. Il suo metodo d’azione è incentrato sull’impiego di forze armate, sovvenzionate grande all’ampia disponibilità finanziaria, per garantire una “protezione efficace” che, come si legge nel sito, è considerata obiettivo prioritario.

Ma la tutela degli ecosistemi naturali non è l’unica finalità dell’attività di African Parks: la ONG si propone anche di migliorare le condizioni socioeconomiche delle comunità che vivono nelle vicinanze delle aree protette creando nuove opportunità di lavoro e aumentando l’afflusso turistico. Secondo quanto affermato dalla ONG, dunque, la salute delle specie selvatiche, la gestione efficace delle aree protette e lo sviluppo economico sono aspetti interconnessi, che vanno curati parallelamente.

Luci e ombre

Quel che i ricercatori si sono riproposti di verificare è se l’attività di African Parks porti effettivamente benefici ai territori gestiti nelle dimensioni ambientale, sociale ed economica. Per realizzare l’analisi, gli studiosi hanno creato un gruppo di controllo costituito da aree protette non gestite da African Parks, ma che l’organizzazione ha individuato come candidate ideali da prendere in gestione in futuro. Paragonando il gruppo di controllo alle aree gestite da African Parks, emerge che queste ultime fossero in condizioni peggiori rispetto a quelle di controllo nei cinque anni precedenti all’intervento della ONG: questo si spiega ricordando che African Parks predilige la presa in cura dei territori più problematici, che gli Stati non riescono a gestire in modo adeguato.

Alcuni dei parametri considerati mostrano un evidente miglioramento delle condizioni delle aree protette dopo il passaggio dal controllo statale all’organizzazione non governativa. La quantità e la diversità della fauna selvatica – misurata valutando due elementi, la riduzione del bracconaggio degli elefanti e l’abbondanza di uccelli – aumenta sensibilmente: il bracconaggio di elefanti risulta ridotto del 35%, mentre la fauna avicola risulta in crescita del 37% (probabilmente in risposta a una riduzione della caccia agli uccelli).

È anche probabile che l’azione di African Parks sia responsabile di un significativo aumento del turismo: le ragioni potrebbero essere l’aumento della fauna selvatica, che rende le aree protette più attraenti per il turismo naturalistico, e anche la maggiore capacità finanziaria di sponsorizzare a livello internazionale le aree protette come potenziale attrazione.

African Parks si occupa anche di dare avvio a progetti di sviluppo economico per le comunità che vivono nelle aree adiacenti alle aree protette che gestisce: in queste aree, infatti, lo sviluppo economico sembra accelerare dopo l’arrivo di African Parks, ma non risulta chiaro, dall’analisi condotta, se le maggiori ricchezze siano a beneficio dell’intera comunità o solo di alcuni attori.

D’altro canto, vi sono anche degli aspetti negativi. Primo fra tutti, un apparente aumento della conflittualità sociale nelle zone limitrofe alle aree protette privatamente. Le forze di sicurezza impegnate ad evitare che si estraggano le risorse naturali all’interno delle aree protette possono causare un effetto spillover, indirizzando le bande armate presenti nei territori verso lo sfruttamento delle popolazioni locali e accrescendo, così, l’insicurezza degli abitanti. Un altro possibile effetto collaterale dell’azione poliziesca di African Parks potrebbe essere l’istigazione alla rivolta delle comunità locali qualora, per proteggere gli ecosistemi naturali, si limiti l’accesso alle risorse senza offrire una valida alternativa per il sostentamento e lo sviluppo economico.

Parola chiave: inclusione

Come scrivono gli autori della ricerca su PNAS, “L’impatto di African Parks sulle dinamiche locali di conflitto solleva serie preoccupazioni etiche e strategiche circa la gestione delle aree protette da parte di attori del settore privato”. La lotta al bracconaggio protegge, sì, la fauna selvatica, ma può causare un aumento esponenziale dei pericoli a cui le comunità locali sono esposte e può esacerbare l’instabilità politica. Inoltre, questo tipo di impegno da parte delle ONG sfocia in un sempre minore coinvolgimento delle comunità locali nei processi decisionali, fenomeno che alimenta ulteriormente il senso di insicurezza e l’esposizione delle persone al pericolo di ritorsioni da parte di bande armate. “Se una maggiore insicurezza è il costo del trasferimento della gestione delle aree protette a organizzazioni private, allora la necessità di colmare il divario tra la sicurezza delle comunità locali e le attività delle ONG è ancora più forte”, scrivono gli autori dell’articolo. “Impegnarsi in tal senso potrebbe avere anche un valore strumentale: una maggiore insicurezza potrebbe danneggiare la percezione delle comunità verso il mantenimento di aree protette, riducendo la capacità dei rangers di raccogliere informazioni essenziali per l’attività anti-bracconaggio”. Predisporre delle modalità di tutela più inclusive nei confronti delle comunità locali potrebbe contribuire a preservare le specie selvatiche senza esporre le comunità locali a rischi ulteriori, avviando inoltre circoli virtuosi in cui gli abitanti del luogo supportano l’azione – pubblica o privata – di protezione degli ecosistemi.

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