SCIENZA E RICERCA

Il clima e la storia: la siccità e il suo potenziale ruolo sullo sviluppo dell'Islam

I cambiamenti climatici, si sa, possono avere conseguenze decisive anche sull’evoluzione delle società umane. Avviene oggi, ad esempio con l’impatto sulle migrazioni, ma è accaduto anche nella storia, come si può desumere da uno studio recentemente pubblicato da Science a proposito dell’importanza fondamentale del clima, all’inizio del VII secolo d.C., nell’affermazione dell’Islam nella penisola arabica.

Il punto di partenza è il declino di Himyar, erede del biblico regno di Saba: un’entità statuale preislamica attiva negli attuali confini dello Yemen che assurse a una certa importanza geostrategica soprattutto tra il III secolo e gli inizi del VI, prima di essere sconfitto nel 525 dal regno etiope di Aksum. Una disfatta repentina quanto misteriosa, che finora è stata letta soprattutto tenendo conto di fattori economico-sociali, mentre una diversa analisi basata sui dati ambientali restava alquanto ardua. Fino a quando un’équipe internazionale di ricercatori guidata da Dominik Fleitmann, del dipartimento di scienze ambientali dell’università di Basilea, ha condotto un’interessante analisi a partire dagli studi condotti in Oman, in particolare sugli strati di una stalagmite all’interno nella grotta di Hoti. Qui, studiando gli isotopi di ossigeno e di carbonio imprigionati nella roccia, si è riusciti a ricostruire un quadro piuttosto attendibile delle precipitazioni piovose e dell’umidità media negli ultimi 2.600 in tutta la penisola arabica.

Secondo i rilevamenti condotti ci sarebbe stata una gravissima siccità all’inizio del VI secolo, con il punto più basso di umidità rilevata tra il 520 e il 532 d.C.: un dato confermato anche da altre analisi analoghe condotte in altri luoghi del Medio Oriente come il lago Neor nel nord dell’Iran e la grotta di Jeita in Libano, oltre che sui livelli del Mar Morto.

La scarsità di piogge nell’antichità era un’autentica maledizione (di fatto lo è ancora oggi, come vediamo proprio in questi giorni): particolarmente per comunità che basavano la loro sussistenza sull’agricoltura e non disponevano nel loro territorio di grossi fiumi ma al limite solo di uadi, letti di torrenti disseccati che solcano il deserto e si riempiono per breve tempo in seguito a violenti temporali. Da questo punto di vista l’intera ascesa e durata del regno Himyar è collegata alla cattura e allo sfruttamento dell’acqua piovana come bene prezioso: per questo promosse la costruzione di dighe e terrazzamenti che in parte possono essere ammirati ancora oggi. Da essi la comunità traeva sostentamento, inoltre proprio come nell’antico Egitto le opere di irrigazione erano anche una formidabile fonte di legittimazione e di potere per lo Stato, che presiedeva alla loro costruzione e alla loro complessa manutenzione.

Fino a quando le piogge non divennero appunto sempre meno consistenti. Le evidenze archeologiche parlano di una crisi demografica tra la fine del VI secolo e l’inizio del VII, con diversi centri abbandonati o spopolati. Il clima sempre più secco portò probabilmente a un’ondata migratoria, in particolare verso gli attuali Iraq e Siria, mentre un regno indebolito si trovava sempre più esposto agli attacchi provenienti dall’altra riva del Mar Rosso, meno soggetta in quel periodo a cambiamenti climatici tanto repentini. Il risultato fu la penetrazione nella penisola del regno di Aksum, che ridusse progressivamente gli arabi a vassalli e poi a sudditi. In seguito il regno Himyar provò a risollevarsi sotto la guida del generale etiope Abreha tra il 530 e il 545, in coincidenza con un aumento temporaneo delle precipitazioni, per poi sparire definitivamente. L’ultimo colpo mortale, oltre che dalle armate africane, potrebbe essere arrivato dalla cosiddetta piccola era glaciale tardoantica, che proprio a partire dagli anni ’30 del VI secolo iniziò a dispiegare i suoi effetti ma che evidentemente nella penisola arabica non comportò un aumento delle piogge.

Il fattore ambientale non può essere letto in modo rigidamente deterministico, ma questo non è il motivo per sottovalutarlo

I terrazzamenti e le dighe, abbandonati e privi di manutenzione, presto decaddero; anche la diga di Marib, le cui imponenti rovine stupiscono ancora adesso i visitatori, deperì e infine collassò tra il 580 e il 600: un avvenimento così importante da aver lasciato traccia nella sura 34 del Corano (“Si allontanarono e allora inviammo contro di loro lo straripamento delle dighe”). Pochi anni prima infatti, intorno al 570, era nato un migliaio di chilometri più a nord un uomo che avrebbe segnato il corso della storia. Sarebbe cresciuto in una realtà molto diversa da quella dominata fino a pochi anni prima dal regno Himyar, privata di una forte entità statale autoctona e soggetta ai continui tentativi di egemonia da parte dei potenti vicini: oltre ad Aksum anche gli imperi bizantino e persiano. L’uomo si chiamava Muhammad e un giorno sarebbe diventato al Rasul: il messaggero di Dio.

Muhammad compirà la sua egira (“migrazione”) verso Medina nel 622, segnando l’inizio dell’era islamica. Cosa sarebbe successo se il regno himyarita non fosse precipitato in una profonda crisi idrica, con un conseguente spostamento del baricentro dal sud agricolo e stanziale al centro nord della penisola, nomade e guerriero? L’instabilità scaturita dalla disfatta di Himyar favorì inoltre la ricerca da parte delle varie tribù di un’identità unificante da contrapporre agli invasori etiopi, bizantini e persiani, e forse anche per questo trovarono nella Pietra nera della Mecca un centro spirituale sempre più forte e attrattivo. Gli stessi cambiamenti climatici in seguito avrebbero spinto le sparse e riottose tribù arabe, finalmente riunite sotto un unico Profeta, a proiettarsi all’esterno della penisola verso la conquista del mondo. “Correlation is not necessarily causation”, ripetono gli autori dell’articolo pubblicato su Science: il fattore ambientale non può essere letto in modo rigidamente deterministico, ma questo non può essere il motivo per ignorarne l’importanza. Soprattutto oggi.

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012