SOCIETÀ

Serve una cultura della sostenibilità a tutti i livelli amministrativi

Una dimensione fondamentale della transizione energetica è il coordinamento tra diversi livelli amministrativi: le direttive europee devono venir tradotte in decreti nazionali, che assegnano ruoli alle regioni, che a loro volta devono coinvolgere le comunità nella realizzazione dei progetti.

Lo scorso giugno il governo italiano ha inviato alla Commissione Europea la versione aggiornata del PNIEC (Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima), lo strumento di governance che indirizza le politiche con cui l’Italia si impegna a raggiungere gli obiettivi comunitari. Tra questi, dimezzare le emissioni entro fine decennio (come previsto dal pacchetto Fit For 55) ed entro la stessa data raggiungere il 42,5% di energia da fonti rinnovabili nei consumi finali (come previsto dalla direttiva RED III).

Il PNIEC è strutturato in diversi capitoli, che affrontano i temi della decarbonizzazione, dell’efficienza e della sicurezza energetica, di come riorganizzare il mercato dell’energia e del ruolo di ricerca e innovazione. “Manca però di carattere attuativo e non tiene in considerazione gli impatti socio economici che le politiche, elencate come lista della spesa, hanno sulla società” ha commentato Francesca Andreolli, ricercatrice senior a Ecco, il think tank italiano per il clima. Andreolli era tra i relatori di un incontro organizzato lo scorso 10 ottobre dal Centro Levi Cases dell’università di Padova. “Manca anche uno strumento di monitoraggio delle politiche che consenta di capire dove stiamo andando e apportare modifiche in corso d’opera” ha aggiunto.

Il PNIEC prevede di raggiungere entro il 2030 i circa due terzi di produzione elettrica da fonti rinnovabili, “che è ambizioso, ma non quanto l’impegno preso in ambito G7 che vorrebbe un settore elettrico decarbonizzato al 2035, e di cui ormai non si parla più” ha ricordato.

Negli ultimi anni l’installazione di impianti rinnovabili è tornata a crescere: circa 3 GW nel 2022, quasi 6 nel 2023, la gran parte dei quali, 5,2 GW, di solo fotovoltaico. Nei primi 8 mesi del 2024 il 52% della generazione elettrica era rinnovabile, contro il 43% di un anno fa. Sono segnali positivi, ma il ritmo non è ancora sufficiente a tagliare il traguardo fissato a fine decennio. Inoltre, nuovi ostacoli sono stati disseminati lungo la via della decarbonizzazione del settore energetico.

Nonostante il PNIEC indichi la centralità di velocizzare i tempi autorizzativi per le rinnovabili e identificare le aree idonee su cui costruire gli impianti, “gli operatori hanno definito gli ultimi mesi un trimestre nero per le rinnovabili” ha riportato Andreolli. Il decreto agricoltura ha limitato fortemente le installazioni di solare a terra, anche nei terreni degradati. Il decreto Aree Idonee ha assegnato alle Regioni il compito di individuare le superfici adatte a ospitare nuovi impianti, creando però nuovi colli di bottiglia. Ne è un esempio la moratoria di 18 mesi su nuovi impianti della Sardegna, che ora ritiene adatto allo sviluppo delle rinnovabili solo l’1% del suolo sardo.

“È vero che dobbiamo tutelare il nostro territorio, ma occorre capire che anche le rinnovabili contribuiscono a tutelare il nostro territorio dai disastri climatici” ha commentato Andreolli. “Ad oggi manca un quadro normativo stabile che superi le barriere di governance tra stato e regioni, o i pareri discordanti tra ministero dell’ambiente e della cultura. Servono certezze agli operatori nazionali e internazionali, che a fronte della moratoria sarda sono preoccupati e non sanno cosa aspettarsi dallo sviluppo delle rinnovabili in Italia”.

Il governo sta già lavorando a un nuovo testo unico sulle rinnovabili, che vorrebbe portare maggiore chiarezza, ma sortirà l’effetto contrario secondo Emiliano Pizzini di Italia Solare, associazione che riunisce 1200 aziende di fotovoltaico. “Il testo unico arriverà a novembre, aveva grandi obiettivi ma lo stesso Consiglio di Stato ha detto che è tecnicamente scarso da un punto di vista legislativo e non porta le semplificazioni che ci si aspettava: se si riscrivono cose già scritte in altri decreti si crea solo più confusione”.

Delegando alle Regioni la responsabilità di individuare le aree dove effettuare le installazioni, secondo Pizzini, il decreto aree idonee ha ceduto a una logica di rincorsa del consenso: “la percezione è che ci sia un’invasione di fotovoltaico sul territorio, che però i dati ci dicono non esserci”.

Se si volesse utilizzare solo il fotovoltaico per installare tutti i GW necessari all’obiettivo 2030, servirebbe lo 0,4% della Superficie Agricola Utilizzata (Sau) oggi in Italia, pari a 12,8 milioni di ettari, ha ricordato Arturo Lorenzoni, professore di economia dell’energia del Centro Levi Cases, che ha moderato l’incontro.

Non sono solo le Regioni dunque, secondo Pizzini, a complicare le regole per l’installazione di nuovi impianti. “L’Emilia Romagna ad esempio aveva normato le aree idonee, ma poi è dovuta tornare sui suoi passi e rivedere quanto aveva fatto, perché il governo legiferava a velocità troppo elevata”.

Ci sono però anche Regioni che si dimostrano sensibili alla questione climatica. Proprio l’Emilia Romagna quest’estate ha approvato il “Percorso per la neutralità carbonica prima del 2050”, un documento strategico che intende indirizzare la decarbonizzazione della regione, la cui stesura è stata coordinata da Patrizia Bianconi, ospite dell’incontro.

La strategia proietta a metà secolo sia uno scenario di applicazione delle politiche correnti, che si ferma a una riduzione del 55% delle emissioni regionali del settore energetico, sia uno di azione di decarbonizzazione più decisa, che integra gli obiettivi europei e arriva a una riduzione del 90%.

Per ottenere la piena neutralità carbonica in tutti i settori, la strategia dell’Emilia Romagna contempla l’assorbimento dell’anidride carbonica sia da parte del settore agricolo e forestale, sia da parte dei sistemi di cattura e stoccaggio della CO2, attorno a cui, ha riconosciuto Bianconi, ruota un forte dibattito: “è in corso a Ravenna un progetto pilota di Eni che dovrà mettere il carbonio recuperato da una centrale termoelettrica in un giacimento esausto di gas. Ci sono poi altri sistemi (CCUS, Carbon Capture, Utilization and Storage, ndr) invece che cristallizzano il carbonio e lo utilizzano in vari modi, ad esempio in materiali edilizi. Non è chiaro però quanto a lungo il carbonio rimarrà in questi materiali”.

A differenza del PNIEC, il percorso dell’Emilia Romagna prevede un sistema di monitoraggio ogni 5 anni. “La strategia indica un piano, poi sono le politiche settoriali a doverlo realizzare” ha ricordato Bianconi, agendo nell’ambito dei trasporti, del residenziale, di alcune industrie, dei rifiuti, dell’agricoltura e della generazione elettrica.

Il documento considera tutti i settori IPCC, adeguandosi agli standard internazionali nella categorizzazione dei settori e nel calcolo delle emissioni. Tenere insieme tutto è stato un lavoro estremamente complesso, ha ammesso Bianconi, anche per quanto riguarda il reperimento dei dati, che sono stati ottenuti incrociando varie fonti (Commissione Europea, Arpa, Ispra, Enea, Terna, Snam, ministeri), poiché non tutti sono in possesso della regione.

Dal 2019 però i dati sulle emissioni regionali vengono monitorati dall’Arpae (agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia). “Come Regione vogliamo promuovere la neutralità anche a livello territoriale” ha detto Bianconi. Il coinvolgimento diretto dell’agenzia regionale fornirà un supporto cruciale a quei territori che hanno aderito al Climate City Contract, un progetto europeo che mira a vedere poco più di 100 città climaticamente neutrali entro il 2030. Nove di queste sono italiane e due, Bologna e Parma, emiliane. Nella lista c’è anche Padova.

Le difficoltà nel quantificare le emissioni però non mancano. Per ora il piano conteggia solo le emissioni dirette, o Scope 1, “più avanti arriveremo a calcolare anche le emissioni Scope 2 e 3 (quelle indirette e di filiera, ndr), ma è più complicato”.

L’obiettivo primario del documento strategico però secondo Bianconi è un altro: “la finalità è creare innanzitutto una cultura della sostenibilità all’interno dell’amministrazione a tutti i livelli. E mostrare che la decarbonizzazione certamente costa, ma anche produce ricchezza”.

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