SOCIETÀ

Il dilemma della trattativa

Riconoscere i terroristi come interlocutori, implicitamente legittimandoli e di fatto rafforzando la loro posizione? Oppure optare per una “fermezza” che rischia di mettere in pericolo vite innocenti? La questione si ripresenta periodicamente ed è il tema dell’ultimo libro di Valentine Lomellini, storica e docente di Terrorism and security in international history presso l’università di Padova. Non si tratta con i terroristi, appena pubblicato da Laterza nella serie Fact Checking, esplora il complesso tema delle trattative con gruppi terroristici, sollevando questioni di grande attualità in un contesto internazionale attualmente segnato da conflitti come quelli in Medio Oriente e tra Russia e Ucraina.

Per dare una risposta alle questioni poste all'inizio la studiosa parte dalla storia dell’utilizzo della violenza come strumento politico, facendola dialogare con l’attualità allo scopo di trarne categorie interpretative utili anche per il presente. “E pensare che, soprattutto dopo la caduta del blocco sovietico, molti pensavano che il fenomeno fosse destinato a essere superato, a causa del venir meno della guerra fredda e del sostegno dell’Urss ai gruppi terroristici – commenta Lomellini nell’intervista a Il Bo Live –. Di fatto invece negli anni Novanta assistiamo all’emergere di Al-Qaeda come attore internazionale; già negli anni Ottanta c’era però stata un’ondata di terrorismo di matrice religiosa, spesso legata all’Islam politico e alla rivoluzione iraniana del 1979”.

Intervista di Daniele Mont D'Arpizio, riprese e montaggio di Massimo Pistore

L’uso politico della violenza, in particolare in ambito internazionale, appare collegato all’asimmetria sul campo tra gli attori politico-militari: a questo riguardo Il terrorismo, sottolinea la “madre” dei Terrorism Studies Martha Crenshaw, non è altro che un mezzo per influire sulla distribuzione generale del potere politico. Di qui la chiosa, come scrive Valentine Lomellini nel suo ultimo libro, che esso sia uno strumento politico razionale, scelto consapevolmente da alcuni attori politici come strumento adeguato agli scopi che intendono perseguire, magari anche per un periodo limitato di tempo: “L’immagine del terrorista come pazzo, squilibrato o soggetto borderline, ai margini della società, non corrisponde, nella maggioranza dei casi, alla realtà”.

Il libro suggerisce un approccio pragmatico e scevro da preconcetti: se trattare con i terroristi può essere infatti eticamente riprovevole, ciò non significa che sia anche sempre sbagliato dal punto di vista umanitario o politico. Tutto, nell’analisi della studiosa, si gioca sul piano della credibilità: da una parte quella degli Stati, enti teoricamente deputati al monopolio della forza legittima, dall’altra quella dei gruppi che scelgono di compiere atti terroristici per accreditarsi come attori politici.

Una questione tanto più attuale oggi, nel momento in cui le trattative tra Hamas e Israele sembrano in una fase di stallo. “Non dimentichiamo che l’attentato del 7 ottobre rappresenta un’innovazione nella storia del terrorismo, sia per la logistica che per il numero di ostaggi, il più alto in tempi recenti – spiega Lomellini – . La risposta di Netanyahu ha tuttavia capovolto la situazione, mirando non solo alla difesa ma anche a ripristinare una forma deterrenza”. “La prospettive attualmente non sono rosee – conclude la studiosa –. Nei negoziati una condizione imprescindibile è stabilire un cessate il fuoco, ma né Hamas né Israele sembrano al momento volerlo”.

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