Foto: REUTERS/Nacho Doce
Dopo il successo planetario de “La sesta estinzione. Una storia innaturale” (Neri Pozza 2014), che l’ha consacrata premio Pulitzer nel 2015, la giornalista e scrittrice newyorkese Elizabeth Kolbert torna ad occuparsi del rapporto tra uomo e natura con il nuovo saggio “Sotto un cielo bianco. La natura del futuro” (Neri Pozza, 2022). Un libro che arriva dritto al punto (e al cuore del lettore) e che evoca un’altra sensazione inquietante di vertigini ecologiche.
Stavolta la Kolbert trascina il lettore in una sorta di spirale del paradosso che riguarda i tentativi umani di controllare la natura con la tecnologia. Da millenni l’uomo prova a imbrigliare la natura, a domarla. Tutto è cominciato con l’agricoltura, l’allevamento e il controllo delle acque dolci. E ogni volta che la tecnologia ha fatto un salto in avanti, nuove tecniche sono state applicate al controllo della natura, per evitare inondazioni, per fornire acqua a un territorio o per far crescere pomodori lì dove non sarebbero potuti crescere. Il punto – che la Kolbert centra in pieno – è che questi tentativi di controllare la natura apparentemente con successo, spesso poi si sono rivelati inadeguati, se non delle vere follie. E hanno generato altri problemi e catastrofi a cui stiamo ponendo rimedio con nuove soluzioni tecnologiche, di cui ancora non conosciamo le conseguenze. L’uomo perde il pelo ma non il vizio, insomma.
Il libro muove quindi da due domande: continuando su questa rotta, che natura ci aspetta in futuro? E quanto di “naturale” davvero resterà? In pieno stile americano, la Kolbert trascina il lettore in lungo e in largo per il pianeta, recandosi nei luoghi dove queste soluzioni tecnologiche vengono cercate, sviluppate, ideate e testate. Per cui “Sotto un cielo bianco” è anche un giro del mondo che porta il lettore a navigare sul Mississippi, a visitare la grande barriera corallina australiana e la Death Valley, per poi ritrovarsi tra i geyser islandesi.
Il viaggio comincia navigando il fiume Chicago, il cui corso è stato invertito per trasportare i rifiuti in una direzione più conveniente, ribaltando così l’idrologia di circa due terzi degli Stati Uniti. Qui un gruppo di ingegneri oggi ha il compito di evitare una catastrofe ecologica: l’ingresso nei Grandi Laghi delle carpe asiatiche, quattro specie di pesci invasive capaci di provocare uno sconquasso ecologico. La soluzione tecnologica che hanno trovato? Elettrificare una porzione del fiume e affiggere cartelli di divieti di balneazione.
Guardando agli esempi che la Kolbert snocciola nel libro (sono moltissimi) sin dalle prime pagine una domanda sorge spontanea: “davvero pensavamo che potesse funzionare e non avrebbe creato ulteriori disagi?”. E proseguendo nella lettura ci si accorge che stiamo perseverando nell’errore, nell’applicare equazione “nuovo problema ecologico, nuova soluzione tecnologica”, con annessa cascata di eventi imprevedibili. Di solito nefasti.
Da New Orleans all'Islanda passando per l'Australia
Lampante è il caso di New Orleans, una città che sprofonda in mare di 15 cm ogni anno. Tutta la Louisiana meridionale, in realtà, ha un problema “strutturale” di subduzione, aggravata dall’innalzamento del livello del mare dovuto al riscaldamento globale. Ma se New Orleans e questo lembo di costa affondano a un ritmo serratissimo è soprattutto colpa di pessime scelte, errori umani e di quel pizzico di boria che ci spinge a costruire un’enorme città nel bel mezzo del delta di uno dei fiumi più grandi al mondo. E ci fa pretendere che rimanga all’asciutto. Per questo il Mississippi è stato imbrigliato, deviato, controllato con sistemi di dighe e sforatoi, ma la città non è salva. Le temibili acque alluvionali svolgevano un ruolo fondamentale: disseminavano decine di milioni di tonnellate di sabbia e argilla su migliaia di chilometri quadrati, formando nuovi terreni e contrastando la subsidenza. Come risolvere il problema? Con una nuova soluzione tecnologica: si chiama BA-39 ed è un sistema di pompaggio di sedimenti, che può trasportare 800.000 metri cubi di fanghiglia ricoprendo 75 ettari di area palustre. Ma per tenere il passo con la subsidenza, la Louisiana avrebbe bisogno di un nuovo BA-39 ogni nove giorni. Senza contare che svuota parte di sé stessa, facendo affondare ancora di più New Orleans, mentre il Mississippi da bravo “ingegnere” costruiva la Louisiana assemblando sedimenti provenienti dall’Illinois, dal Minnesota e da tutti gli Stati che attraversava.
In Australia, invece, al SeaSim si simulano le condizioni dell’oceano che verrà, più caldo e più acido. E si sviluppano soluzioni per salvare la grande barriera corallina: si allevano coralli simulando un’evoluzione assistita. Si riproducono le forme più resistenti al calore e all’acidità, e parallelamente si provano a creare alghe simbionti (quelle che danno ai coralli nutrimento e il caratteristico colore) più resistenti al calore con la tecnica CRISPR. Con alghe più resistenti al calore, i coralli non sbiancherebbero. Ma occorrerà disperdere le larve di questi super-coralli con dei robot, e ancora spruzzare acqua marina in superficie per creare una nebbia artificiale che li protegga dal sole. Tutto questo basterà? Non è dato sapere.
Ma è guardando al problema più grosso da affrontare – la crisi climatica – che il paradosso emerge sempre più nitido. Nell’ultimo report IPCC tutti i modelli che limitano l’aumento della temperatura media globale entro i 2°C, prevedono anche emissioni negative: sottrarre cioè anidride carbonica all’atmosfera. Kolbert porta il lettore in Islanda, dove c’è chi estrae CO2 dall’aria e la trasforma in minuscole sfere di carbonato di calcio che restano intrappolate nel basalto. E chiude il suo saggio con l’ipotesi più ardita: la geoingegneria solare, che punta a spedire un fantastiliardo di particelle riflettenti nella stratosfera per gestire la radiazione solare. Tra le particelle candidate per essere diffuse nella stratosfera a bordo di aerei e palloni aerostatici ci sono acido solforico, ioduro d’argento, carbonato di calcio e perfino… polvere di diamanti. Di certo la soluzione più costosa. In compenso il pianeta verrà raggiunto da una minore quantità di luce solare e le temperature smetteranno di salire, avremo tramonti fantastici e vivremo sotto un cielo bianco lattiginoso (da qui il titolo del libro). Il paradosso sta nel fatto che per controllare il riscaldamento globale in questo modo servirebbero iniezioni costanti di particelle, anzi sempre più frequenti, che verrebbero effettuate da una flotta di aerei SAIL - Stratospheric Aerosol Injection Lofter alimentati con energie fossili. E che immetterebbero quindi ulteriore anidride carbonica in atmosfera.
È un cane che si morde la coda. Continuiamo a inciampare negli stessi errori: curare i sintomi e non la causa. E così continueremo a costruire case e città in quello che abbiamo fatto diventare il vecchio letto di un fiume, restando sorpresi di un’improvvisa alluvione. Continueremo a deviare il corso dei fiumi per dirigere rifiuti altrove, piuttosto che ridurre la loro produzione. Continueremo a cercare soluzioni alle specie aliene che abbiamo trasportato ovunque, senza fermare il commercio di specie esotiche ed eliminare il bracconaggio. Proveremo a controllare persino il clima di un intero pianeta (e sappiamo quanta incertezza avvolge i modelli complessi), pur di non modificare il nostro bussiness as usual. Nella sua panoramica del multiforme ingegno umano Elizabeth Kolbert fa provare le vertigini: non offre soluzioni. Piuttosto un pungolo alla coscienza dei decisori politici.