SOCIETÀ

Le spinte indipendentiste nell'Europa della pandemia

Non diminuisce d’intensità, anzi cresce, in Catalogna la spinta dei partiti secessionisti, veri dominatori delle ultime elezioni regionali. O per meglio dire: la somma dei voti dei tre partiti che, con differenti sfumature, sostengono l’indipendenza della Regione nel nord-est della Spagna (che comprende Barcellona) supera la maggioranza assoluta dei consensi, infrangendo per la prima volta il muro del 50%. Notizia di rilievo, anche se da queste parti la parola “secessione” è tutt’altro che una novità. Indipendentista era anche il governo regionale uscente, nato sulle macerie di quanto accaduto nell’ottobre del 2017: il referendum (poi stravinto) indetto dall’allora presidente Carles Puigdemont, la proclamazione unilaterale di indipendenza, la violenta repressione della polizia, gli scontri, la pronuncia di incostituzionalità della suprema Corte spagnola, gli arresti dei principali protagonisti politici, infine le condanne loro inflitte. Un sogno infranto, ma tutt’altro che abbandonato. Anche se la spinta di cui parlavamo prima, con gli anni, è diventata meno univoca, più particolareggiata, piena di distinguo e di sfaccettature. Al punto che l’ipotesi di un nuovo governo indipendentista “in purezza” è oggi tutt’altro che certo. 

Perché in realtà il partito più votato (23%, pari a 33 seggi) è stato il “PSC” (Socialisti catalani, costola del Pse), guidato da Salvador Illa, ex ministro della Salute del governo centrale, dichiaratamente contrario all’indipendenza. Ma resta il fatto che a un soffio di distanza c’è il gruppone degli indipendentisti: “ERC” (Esquerra Republicana de Catalunya, di centrosinistra) con il 21,3% dei voti (e 33 seggi), “Junts per Catalunya” (di centrodestra) con il 20% dei voti e 32 seggi, mentre “CUP” (Candidatura d'Unitat Popular, estrema sinistra) ha il 6,6% con 9 deputati. Sommando anche i voti dei partiti secessionisti più piccoli, si supera la soglia del 50%. Aggregando i seggi conquistati, i tre partiti arrivano a quota 74, ben oltre la maggioranza assoluta di 68. Per completare il quadro: quarta forza per voti ottenuti (ed è un risultato clamoroso) è Vox, il partito di estrema destra, xenofobo e neofranchista, guidato da Santiago Abascal: 7,6% dei voti e 11 seggi. Quinto posto (6,8%) per “En Comú Podem”, lista di formazioni di centrosinistra riconducibile a “Podemos”. Mentre nel centrodestra crollano Ciudadanos (aveva 30 deputati, oggi con il 5,5% ne sono rimasti soltanto 6) e il Partito Popolare, al quale sono rimaste appena le briciole: 3,8%. E comunque: mai l’astensione è stata così alta: 46,5%. Colpa della pandemia, certo, ma anche sintomo di una stanchezza profonda di un elettorato che da anni si dimena sulla dicotomia secessione/unione, senza riuscire a fare un passo in avanti, nemmeno in questo periodo di gravissima emergenza sanitaria. Al punto che molti analisti, soprattutto economici, parlano esplicitamente della “década perdida”, del decennio perduto. Come l’economista e scrittore Fernando Trias de Bes: “Siamo arrivati ​​a un punto in cui pensi che non importa chi governa. Il sentimento dei cittadini, indipendentisti e non indipendentisti, è che siamo stati usati, che siamo stati uno strumento al servizio della lotta per il potere dei partiti”.  

Socialisti in cerca di alleanze

Dunque, un voto frammentato che non risolve l’incertezza, anzi la amplia. Perché nel gioco delle alleanze le incompatibilità manifeste sono assai più importanti dei numeri. I socialisti sono il primo partito, ma non potranno governare se non con l’appoggio di almeno un partito indipendentista, come ERC (già sono alleati nel governo nazionale). Ma in Catalogna la questione è spinosa. Numeri alla mano l’unione delle forze di sinistra (Socialisti, ERC e En Comú Podem) garantirebbe 74 deputati (riproponendo l’attuale composizione del governo nazionale), ma convincere Esquerra Republicana non sarà semplice. Il suo leader catalano, Pere Aragonès, ha due richieste: amnistia per i politici detenuti dopo il fallito tentativo di secessione del 2017 e nuovo referendum per l’indipendenza. Secondo il presidente di Erc, Oriol Junqueras (ex vicepresidente della Generalitat, che sta scontando una condanna a 13 anni di carcere per sedizione), un’alleanza con i socialisti è “impossibile, perché si tratta di un partito agli antipodi”. E le parole pronunciate prima del voto dal premier spagnolo, Pedro Sanchez, non sono propriamente un inno alla concordia: “La Catalogna ha bisogno di un cambiamento per superare la divisione, lo scontro e il declino. Un decennio perso a causa degli indipendentisti: ecco perché abbiamo bisogno di un cambiamento sensibile, sereno e calmo che guarisca le ferite e che risvegli gli affetti tra i catalani e tra Catalogna e Spagna”. Tutti i partiti secessionisti hanno peraltro sottoscritto, prima del voto, un documento nel quale si impegnano a non raggiungere accordi post-elettorali con il Partito Socialista. 

L’alternativa più logica, e a oggi più probabile, sarebbe un governo di coalizione degli indipendentisti, ma i rapporti tra Esquerra Republicana e Junts (l’uno di centrosinistra, l’altro di centrodestra) sono tutt’altro che idilliaci. I primi più “dialoganti” (richiesta di referendum, senza “strappi” con il governo centrale), i secondi più intransigenti nel chiedere che venga immediatamente ripresa la dichiarazione unilaterale d’indipendenza del 2017. Bisognerà trovare una sintesi, e non sarà semplice. ERC, in quanto formazione più votata del blocco indipendentista, ha già detto che, nel caso, pretenderebbe la presidenza della Generalitat. E non ci sono altre maggioranze possibili: o si trova una soluzione o si tornerà al voto, presumibilmente a ottobre.

Una società lacerata

Una politica divisa che riflette l’immagine di una società lacerata in due (e l’economia della Regione è in grandissima sofferenza, con la fuga delle multinazionali), tra i sostenitori dell’autonomia a tutti i costi e coloro che ritengono non sia questa, soprattutto oggi, in tempi di pandemia, una priorità. Una tensione che potrebbe essere ulteriormente acuita da quanto accadrà da qui a un mese in merito all’ipotesi di revoca dell’immunità per l’ex presidente della Generalitat, Carles Puigdemont (leader di Junts), attualmente in esilio in Belgio e rincorso da ordini di cattura internazionali. La decisione del Parlamento Europeo è attesa nella sessione plenaria di marzo. Mentre dilagano in tutta la Spagna le proteste per l’arresto, pochi giorni fa proprio in Catalogna, del rapper Pablo Hasél, condannato a 9 mesi di reclusione per “incitazione al terrorismo e oltraggio alla corona”, per aver insultato in alcuni tweet monarchia e forze di polizia, accusandole di «torturare migranti e manifestanti». Il suo arresto plateale (i Mossos d’Esquadra, la polizia catalana, l’hanno catturato nel Rettorato dell’Università di Lleida, dove si era barricato) ha riacceso il dibattito sulla libertà d’espressione e di critica e l’eccesso di pena nel condannarle. A favore del rapper si sono schierati anche 200 artisti, tra i quali l’attore Javier Bardem e il regista Pedro Almodovar. Scontri, anche molto violenti, si sono verificati a Barcellona e a Madrid. Una stazione della polizia a Vic è stata assaltata dai dimostranti. Diversi feriti e decine di arresti. I Mossos hanno perfino denunciato «violenze estreme e gratuite» da parte dei manifestanti. Un evento non prettamente legato alle istanze indipendentiste, ma che s’intreccia alle manovre per formare il nuovo governo. Come l’inattesa  convergenza tra Junts e CUP su un tema dibattuto e controverso: la modifica del modello catalano di polizia, vale a dire la “libertà d’azione”, spesso eccessiva, dei Mossos d’Esquadra. Candidatura d'Unitat Popular, oltre a chiedere le dimissioni del ministro dell'Interno Miquel Samper, pretende preliminarmente un accordo per «la paralisi della repressione e una svolta di 180 gradi nelle politiche di sicurezza». E Junts si è allineato, definendo “inaccettabile” la risposta della polizia: «Valutiamo criticamente le situazioni di violenza subite e gli errori commessi da alcuni agenti, che in nessun caso possono rimanere impuniti, e ci impegniamo per un nuovo modello di ordine pubblico. Invitiamo il resto delle forze politiche a un dibattito in Parlamento sulla riforma del modello poliziesco catalano».

La “minaccia” scozzese

Il riaccendersi della spinta indipendentista catalana fa scalpore in un’Europa dominata, in quest’ultimo anno, dal timore del dilagare della pandemia. I movimenti secessionisti non sono scomparsi, ma restano come sopiti, nascosti nelle retrovie, come se fossero schiacciati da altre urgenze, da altre priorità. Con un’eccezione però: la Scozia. Di fronte a una Brexit che ha minato alle radici un’unione territoriale mai come oggi in bilico (il 62% aveva votato per restare in Europa), la premier scozzese Nicola Sturgeon ha già dichiarato che farà di tutto per conquistare l’indipendenza, lasciare il Regno Unito e riabbracciare l’Unione Europea. Il prossimo maggio gli scozzesi sono chiamati al voto: qualora il suo partito, lo Scottish National Party (Snp), vincesse le elezioni (non le perde dal 2003) Sturgeon ha già promesso che tenterà in ogni modo di indire un nuovo referendum (quando l’emergenza della pandemia sarà superata) per chiedere l’indipendenza, nonostante l’opposizione, già dichiarata, del premier britannico Boris Johnson. “Un referendum legale per dare alle persone il diritto di scegliere”ha dichiarato pochi giorni fa Sturgeon, lasciando intendere di essere pronta a una battaglia legale con Londra nel caso non voglia concedere l’autorizzazione. Un sondaggio pubblicato da The Times rivela che la maggioranza degli elettori in Scozia, ma anche in Irlanda del Nord, vorrebbe pronunciarsi in un referendum per il leave. L’ultimo voto in Scozia per l’indipendenza risale al 2014: il 55% dei votanti scelse di restare nel Regno Unito. Ora la Brexit potrebbe dare lo slancio decisivo alle istanze degli indipendentisti.

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