SOCIETÀ

"Turpi traffici": donne e sfruttamento sessuale

Una quindicina di anni fa l'Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (United Nations Office on Drugs and Crime – Unodc) ha iniziato a raccogliere dati statistici sulla tratta di esseri umani e, da allora, le donne e le ragazze hanno costantemente rappresentato la maggioranza dei casi segnalati. Secondo il Global Report Trafficking in Person 2020, nel 2018 ogni 10 vittime, circa cinque erano donne adulte e due giovani ragazze.

In proposito l’Assemblea generale delle Nazioni Unite non ha mancato di sottolineare come la tratta di donne e ragazze sia radicata nella disuguaglianza di genere e nella discriminazione sistemica, che spesso sono la conseguenza di elevati livelli di povertà, di mancanza di accesso all'istruzione, di varie forme di violenza contro le donne e della precarietà del lavoro femminile. Più in generale, ad avere un peso sono anche le disuguaglianze all’interno e tra i Paesi e le situazioni di conflitto e crisi umanitaria. Si tratta di un crimine che assicura profitti elevati a basso rischio: si stima, infatti, che la tratta di esseri umani generi a livello globale 150 miliardi di dollari di profitti illegali ogni anno, 99 miliardi dalla tratta sessuale e 51 miliardi di dollari dalla tratta per lavoro.

Tra il 2017 e il 2018, sono state individuate un totale di 74.514 vittime di tratta in oltre 110 paesi. Tra queste circa il 70% è rappresentato da donne, principalmente adulte, sebbene il numero di ragazze continui a salire. Ben il 77% è oggetto di tratta per sfruttamento sessuale (il 14% per lavoro forzato e il resto per altri scopi come matrimoni forzati, servitù domestica, ingravidazione forzata).

A indagare il fenomeno da una prospettiva storica è Laura Schettini, ricercatrice del dipartimento di Scienze storiche geografiche e dell’antichità dell’università di Padova, nel volume Turpi traffici. Prostituzione e migrazioni globali 1890-1940 (Biblink editori 2019) che proprio oggi riceve il premio Gisa Giani, bandito dall’Istituto per la Storia dell’Umbria contemporanea in collaborazione con la Società italiana delle storiche.

Sul finire dell’Ottocento, scrive l’autrice, stampa, cinema e associazionismo denunciano “all’opinione pubblica e ai governi l’esistenza di un vero e proprio commercio, dilagante, di giovani donne a scopo di prostituzione nell’ambito dei flussi migratori del periodo, tanto interni (dalle campagne alle città) che internazionali”. Viene indicata come la “tratta delle bianche” che, a quei tempi, si riferisce essenzialmente allo sfruttamento femminile a fini sessuali. L’espressione nasce in seno al movimento abolizionista, in particolare all’International Abolitionist Federation, fondata da Josephine Butler nel 1875 per chiedere l’abolizione della regolamentazione di Stato della prostituzione. A quei tempi, infatti, in gran parte dei Paesi europei e nelle loro colonie esiste un sistema di case di tolleranza o di bordelli legalizzati a cui le donne si iscrivono o vengono iscritte ed esercitano il mestiere.

Guarda l'intervista completa alla storica Laura Schettini. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Elisa Speronello

A partire dalla fine del XX secolo la prostituzione si integra progressivamente nel mercato transnazionale, diventa un fenomeno globale. “In concomitanza con le grandi migrazioni che dall’Europa si muovevano verso le Americhe e attraverso i Paesi europei – si legge nel volume –, all’interno dei flussi di manodopera che attraversavano il Mediterraneo seguendo le nuove opportunità di lavoro aperte dalla colonizzazione e dall’espansione dei commerci internazionali, migliaia di donne si sono spostate in quei decenni per impiegarsi come meretrici in posti diversi. Molte altre, partite alla ricerca di lavori diversi (nei servizi domestici o nel circuito dell’industria dell’intrattenimento, per esempio), sono finite a fare le meretrici nelle società di arrivo. Ingrossando le fila delle ‘prostitute emigranti’”.  

Ci sono dunque le storie di Giuseppa, Maria, Virginia e molte altre italiane salpate dai porti della penisola per andare a lavorare nei bordelli in Egitto, Libia, Malta, Argentina e Stati Uniti. Ma ripercorriamo anche le vicende di tante donne europee, francesi, austriache, romene, tedesche, che si muovono verso il nostro Paese e da qui verso altre mete del Mediterraneo. Incontriamo uomini come Beniamino, che all’inizio del secolo scorso costringe la moglie a prostituirsi benché incinta, o come Francesco, che alla vigilia della Seconda Guerra mondiale recluta giovani da far prostituire nei suoi cabaret a Panama, o ancora come Max, che approfitta delle sue ingenue amanti. La biografia del singolo si intreccia con le vicende politiche, con le iniziative diplomatiche e le misure di polizia. Il mondo della prostituzione diventa un mercato transnazionale, che ha legami con i processi migratori e assume rilievo come questione politica nazionale.

È una storia di donne lavoratrici migranti, che partono per lavorare nell’ambito e nel campo della prostituzione o che vengono forzate a farlo - spiega Laura Schettini a Il Bo Live -. Ma ci sono anche donne che emigrano per lavorare in altri settori, come quello del lavoro domestico, e che invece nel Paese d’arrivo finiscono negli ambienti della prostituzione, in virtù della fragilità del lavoro femminile. Sono anni in cui le donne soffrono di una disparità salariale importante e guadagnano, a parità di lavoro, molto meno degli uomini e non riescono a raggiungere in moltissimi casi l’autosufficienza economica. Sono donne che vivono un mondo di relazioni di genere diseguali e svantaggiose. Sono giuridicamente subordinate alle figure maschili della famiglia e questo le espone particolarmente al mondo della prostituzione attraverso molteplici vie”. Secondo la ricercatrice si tratta di un pezzo importante anche della storia delle migrazioni femminili: “Decenni di studi – osserva – hanno raccontato le migrazioni come un fenomeno prettamente maschile, agito preferibilmente da uomini giovani, bianchi ed eterosessuali: le donne si sarebbero mosse a traino o in un secondo momento o contribuendo in maniera irrilevante a questa storia”. In realtà in anni recenti una schiera di storiche si sono interessate al tema e hanno dimostrato che il rapporto numerico tra uomini e donne che emigravano era bilanciato: le donne hanno costituito il 40% del totale, sottolinea la ricercatrice, e in alcuni momenti superavano gli uomini.

In questo contesto, in una rete di movimenti transnazionali, l’Italia gioca su ben tre posizioni diverse: “Da una parte – spiega Schettini–: è un luogo di partenza, forse uno dei più significativi, ed è anche uno dei Paesi che partecipa di più ai grandi movimenti migratori di questi decenni. È quindi un Paese fornitore di prostitute nel mercato globale della prostituzione, allo stesso tempo è un Paese di arrivo perché in Italia e nelle sue colonie vengono a lavorare molte donne dei Paesi dell’Europa continentale. In Libia, per esempio, c’è grande richiesta di donne bianche europee che lavorino nelle case di tolleranza della colonia italiana. Oppure sono rumene o austriache o donne provenienti dai Paesi balcanici che vengono a lavorare in questo sistema consolidato di case di prostituzione che esiste allora in Italia. Infine l’Italia è un Paese di transito da cui si imbarcano donne che provengono dai Paesi dell’Europa continentale per rivolgersi all’altra sponda del Mediterraneo”.

Secondo la storica, proprio per questa sua triplice posizione, l’Italia è un caso di studio significativo: “Ci permette di osservare come le politiche che vengono rivolte al controllo o alla regolamentazione della prostituzione internazionale, rivolte alla figura della prostituta “migrante”, che allora si affaccia nel discorso pubblico in maniera forte, possano variare a seconda della posizione occupata dal Paese in questa mappa della prostituzione internazionale. L’Italia è un Paese che cambia politiche e cambia sguardo (di stigmatizzazione o accoglienza) a seconda che sia un Paese di arrivo o un Paese fornitore di prostitute”.

Nel 1899, per la prima volta, l’emergenza viene riconosciuta ufficialmente: l’occasione è l’International Congress on the White Slave Trade, il congresso internazionale tenuto a Londra che riunisce rappresentanti di governo di vari Paesi e associazioni di volontariato. Tre anni più tardi segue una conferenza diplomatica a Parigi e, a ritmo serrato, congressi e conferenze che portano alla definizione di vari trattati. Il primo di questi è l’Accordo internazionale inteso a garantire una protezione efficace contro il traffico criminale conosciuto sotto il nome di tratta delle bianche. Negli anni Venti e Trenta del Novecento sarà la Società delle Nazioni a farsi carico dell’emergenza: nel 1921 viene istituita l’International Convention for Suppression of the Traffic in Women and Children – non più, dunque, “tratta delle bianche” ma, più in generale, “traffico di donne” senza distinzione di nazionalità – e viene formato un comitato di esperti (il Traffic in Women and Children Committee) che avrebbe dovuto indagare sulla natura dei traffici, stabilendo se esistesse una relazione tra case di tolleranza autorizzate e la tratta.

È Grace Abbott, la rappresentante degli Stati Uniti in seno al comitato, a proporre nel 1923 alla Società delle Nazioni di fare un’inchiesta sulle reali dimensioni del fenomeno: a farsene carico sarà un gruppo di esperti di cui fanno parte anche due donne, Paulina Luisi, medico e femminista, decisa abolizionista, e l’italiana Cristina Giustiniani Bandini, figura di rilievo del movimento femminile cattolico, e collaboratrice per molto tempo del diplomatico Giacomo Paulucci di Calboli Barone, dal 1927 sottosegretario generale per l’Italia alla Società delle Nazioni. Dopo tre anni di lavoro, il gruppo è in grado di rivelare “i principali itinerari della tratta”: i Paesi europei (in particolare Germania, Italia, Francia, Polonia, Romania, Turchia, Spagna, Grecia, Austria) sono i più importanti luoghi di partenza e le Americhe, soprattutto Brasile, Argentina, Messico e Panama, le destinazioni. Un’altra rotta è quella che unisce l’Europa meridionale all’Egitto e ad altri Paesi del Nord Africa. Itinerari, questi, che oggi sono essenzialmente invertiti.

Il Comitato arriva a convinzioni nettamente abolizioniste: “L’argomento fondamentale contro la regolamentazione è che mentre la prostituta indipendente conserva un resto di dignità umana e la piena libertà della sua persona, il che le consente sia di limitare e di scegliere i suoi clienti, sia di risollevarsi un giorno dalla sua avvilente situazione, il sistema della regolamentazione […] la espone allo sfruttamento più vergognoso da parte dei parassiti autorizzati a gestire le case di tolleranza”.

Nel 1933, con la Convenzione per la repressione della tratta delle donne adulte (International Convention for the Suppression of the Traffic in Women of the Full Age), le misure di protezione vengono finalmente estese alle donne maggiorenni anche se consenzienti.

Il dibattito tra abolizionisti della regolamentazione della prostituzione e coloro che erano invece per il mantenimento ha visto il prevalere in ambito europeo, almeno fino alla seconda Guerra mondiale, della tendenza ad accettare l’impiego di donne straniere nelle case di tolleranza autorizzate, monitorando attentamente però la situazione. In Italia si dovrà attendere il 20 settembre 1958 perché le “case chiuse” vengano definitivamente serrate: è il risultato di una battaglia decennale della senatrice socialista Lina Merlin la cui Legge n. 75 prevede anche specifiche pene in caso di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione. 

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