SCIENZA E RICERCA

Vaccino Covid-19: gli human challenge studies e le implicazioni etiche

Un’efficacia di oltre il 90% per il candidato vaccino contro Covid-19 sviluppato dall’azienda farmaceutica statunitense Pfizer, in collaborazione con la tedesca BioNTech. L’annuncio è stato dato nei giorni scorsi a sperimentazione ancora in corso ma, anche se si si dovrà attendere che lo studio clinico di fase 3 sia concluso, i primi risultati sono promettenti e l’intenzione è di chiedere l’autorizzazione all’uso di emergenza alla Food and Drug Administration già alla fine di novembre. Quello della Pfizer-BioNTech è uno degli 11 candidati vaccini in fase 3, giunti dunque ad uno stadio che vede coinvolte migliaia di persone per testarne sicurezza e ed efficacia. L’obiettivo è rendere disponibile quanto prima un vaccino per prevenire l’infezione da Sars-CoV-2, così da arginare la pandemia. Proprio per ridurre i tempi di sviluppo del farmaco, si valuta anche la possibilità di ricorrere ai cosiddetti Human Challenge Studies (studi di infezione umana controllata), su cui tuttavia i pareri divergono. Infettare volontari sani con il virus Sars-CoV-2 nel caso specifico, per testare l’efficacia di un potenziale vaccino – di questo si tratta –, solleva infatti interrogativi sulla loro validità scientifica e (soprattutto) dubbi di natura etica.  

Il Regno Unito – notizia di queste settimane – è il primo Stato al mondo in cui prenderà avvio una sperimentazione di questo tipo, sulla quale il governo ha investito quasi 34 milioni di sterline: l’Imperial College di Londra, in collaborazione con  il dipartimento per le imprese, l'energia e la strategia industriale, il Royal Free London NHS Foundation Trust e hVivo, all’inizio del prossimo anno darà avvio allo Human Challenge Programme, allo scopo di accelerare lo sviluppo di un vaccino contro Covid-19 e studiare la malattia. Saranno reclutati volontari di età compresa tra i 18 e i 30 anni, che non abbiano già contratto il virus, senza patologie sottostanti e senza fattori di rischio avversi per Covid-19, come malattie cardiache, diabete o obesità. Nella fase iniziale, l’obiettivo sarà capire quale sia la quantità minima di virus necessaria a provocare l’infezione e suscitare una risposta immunitaria, aumentando lentamente la dose virale a cui sono esposti i piccoli gruppi di volontari, così da comprendere meglio il decorso dell'infezione. I ricercatori mirano a infettare i volontari con la dose più bassa possibile per innescare la replicazione virale, ma minimizzare i sintomi. Una volta completata questa prima fase, gli scienziati analizzeranno come funzionano i vaccini nel corpo per prevenire Covid-19, esamineranno potenziali trattamenti e studieranno la risposta immunitaria.

“Gli Human Challenge Studies – ha affermato Chris Chiu, del dipartimento di malattie infettive dell'Imperial College di Londra e coordinatore dello studio – possono aumentare la nostra comprensione di Covid-19 in modi unici e accelerare lo sviluppo di molti potenziali nuovi trattamenti e vaccini contro l’infezione da Sars-CoV-2”. Sulla stessa linea, Peter Openshaw, co-investigator dello studio e direttore dello Human Challenge Consortium (HIC-Vac) all’Imperial College di Londra, ha dichiarato: “Infettare deliberatamente i volontari con un noto patogeno umano non è mai stato preso alla leggera. Tuttavia, tali studi sono enormemente informativi su una malattia, anche una così ben studiata come Covid-19. È davvero vitale che ci muoviamo il più velocemente possibile per ottenere vaccini efficaci e altri trattamenti per Covid-19, e questo tipo di studi hanno il potenziale per accelerare lo sviluppo di nuovi farmaci e vaccini e ridurne i rischi”.

Non tutti gli scienziati, tuttavia, sono dello stesso parere. Tra le centinaia di vaccini contro Covid-19 in fase di sviluppo in tutto il mondo – riporta The Lancet Respiratory Medicine –, diversi candidati sono già nelle fasi finali e quindi potrebbero fornire risultati definitivi ed essere approvati prima ancora che questa sperimentazione abbia avuto la possibilità di iniziare.

Ancora, Jeffrey P. Kahn, Leslie Meltzer Henry, Anna C. Mastroianni, Wilbur H. Chen e Ruth Macklin, firmano un articolo su Pnas in cui sostengono – e lo dichiarano fin dal titolo – che non sia etico (almeno per il momento) condurre studi di questo tipo per lo sviluppo di vaccini contro Covid-19. E adducono una serie di motivazioni. Gli studi di infezione umana controllata richiedono che si possieda una terapia di salvataggio disponibile per il trattamento di coloro che vengono infettati con un determinato agente patogeno o che la malattia sia nota per essere autolimitante. Ad oggi non esiste una terapia di salvataggio per l’infezione da Sars-CoV-2, ma i fautori degli Human Challenge Studies ritengono probabile che Covid-19 sia una patologia autolimitante e lieve nei soggetti giovani e sani e dunque che vi siano i requisiti di base per condurre tali studi su questa fascia di popolazione. I sostenitori ritengono, inoltre, che possa essere considerato etico condurre sperimentazioni di questo tipo, soprattutto perché consentirebbero di accelerare lo sviluppo di un vaccino. Partendo da queste premesse, Kahn e colleghi muovono però una serie osservazioni.

La comunità scientifica è unanime nel ritenere che gli studi di infezione umana controllata, per poter essere condotti, debbano produrre un elevato valore sociale, tale da giustificare il potenziale rischio cui vengono sottoposti i volontari sani. E nel corso dell’attuale pandemia, osservano i sostenitori del metodo, proprio la possibilità di accelerare lo sviluppo di un vaccino contro Covid-19 risponde a questo criterio. Secondo gli autori del paper, però, i fatti non supportano queste affermazioni. Gli Human Challenge Studies avvengono di norma in situazioni in cui condurre studi sul campo sarebbe difficile, perché l'agente patogeno bersaglio è raramente trasmesso nell'ambiente naturale locale. In una pandemia è vero il contrario, tanto che la trasmissione diffusa di Sars-CoV-2 sta già facilitando molti studi di fase 3 attivi su candidati vaccini Sars-CoV-2. E, aggiungiamo, anche con risultati molto incoraggianti come quello annunciato in questi giorni dalla Pfizer-BioNTech.

Esistono poi aspetti tecnici e logistici da considerare, secondo Kahn e colleghi. Per poter condurre studi di infezione umana controllata è necessario innanzitutto selezionare il ceppo virale, avere a disposizione un laboratorio BSL-3, ricevere l’approvazione della Food and Drug Administration (Fda) o di altro ente regolatore per poterlo somministrare ai volontari. Gli esperti stimano che nel contesto degli Human Challenge Studies per Sars-CoV-2 questi passaggi potrebbero richiedere complessivamente da uno a due anni per essere completati, portandoli a concludere che è “improbabile che tali studi accelerino la determinazione dell'efficacia di un vaccino”. Inoltre, aggiungono gli autori, non è del tutto chiaro se la Fda prenderà in considerazione i dati ottenuti attraverso studi di questo tipo nel momento in cui dovrà autorizzare un farmaco.

Il valore sociale degli Human Challenge Studies (in termini di decessi evitati) è legato al fatto che soprattutto i soggetti a maggior rischio di mortalità correlata a Covid-19 – dunque gli anziani, le persone immunocompromesse o con comorbidità – potrebbero contare su un vaccino sicuro ed efficace in tempi più veloci. Tuttavia, sottolineano gli studiosi, va considerato che le linee guida per svolgere studi di infezione umana controllata raccomandano di arruolare solo adulti giovani e sani, per limitare potenziali rischi, e questo preclude la possibilità di estendere i risultati all’intera popolazione. Inoltre, le conoscenze sul virus continuano a evolvere e, nonostante si ritenga che i giovani contraggano la malattia in forma lieve e guariscano rapidamente, esistono studi che rilevano conseguenze importanti anche in questa fascia della popolazione.

Kuhn e colleghi riservano una riflessione anche alla necessità di prevedere cure mediche adeguate per i partecipanti alla sperimentazione, così da minimizzare i rischi, rilevando però che, in questo momento, le risorse necessarie in termini di personale sanitario e di dispositivi di protezione individuale, ventilatori, ossigeno, taluni trattamenti e persino i test, sono già limitate a causa della pandemia. E, peraltro, gli Human Challenge Trials rischierebbero di erodere personale medico per la gestione dell’emergenza.     

Delle questioni etiche che gli Human Challenge Studies sollevano abbiamo parlato con Luca Savarino, docente di bioetica all’università del Piemonte orientale e membro del Comitato nazionale per la bioetica.

Guarda l'intervista integrale a Luca Savarino, membro del Comitato nazionale per la Bioetica. Il docente parla di Human Challenge Studies e ragiona anche sui criteri di allocazione e prioritizzazione dei potenziali vaccini. Montaggio di Elisa Speronello

“La discussione del problema non può prescindere da un inquadramento più generale dello stato cui è arrivata la sperimentazione sui vaccini anti-Covid oggi. Ce ne sono 11 in fase 3, la fase sperimentale ultima che viene condotta su un gran numero di volontari e che richiede costi molto elevati e tempi molto lunghi. Non bisogna dimenticare nemmeno il fatto che la corsa al vaccino è dettata da un lato da ragioni di emergenza sanitaria che riguardano tutto il mondo, ma dall’altro è anche condizionata da fattori di tipo geopolitico: i vari Stati interessati a produrre il vaccino intendono dimostrare l’eccellenza del proprio patrimonio tecnologico e della propria ricerca. Dunque, esiste un interesse oserei dire quasi nazionalistico nella corsa al vaccino. E ci sono fortissimi interessi economici, perché la fase 3 è molto costosa. All’interno di questo quadro io credo che la discussione sulla legittimità degli Human Challenge trials non possa essere condotta da un punto di vista puramente teorico, utilitaristico, o in generale affrontata con gli strumenti della filosofia. Bisogna essere molto prudenti ed in grado di valutare l’utilità di questo tipo di studi e la loro legittimità alla luce non solo dell’emergenza che stiamo vivendo, ma anche degli interessi che si celano dietro la possibile produzione di un vaccino”.

Continua Savarino: “Non sono in grado di giudicare se questo tipo di sperimentazioni siano utili dal punto di vista scientifico e non sono nemmeno in grado di valutare dal punto di vista scientifico se potranno produrre dei risultati accettabili, dico solo che bisogna essere molto prudenti in primo luogo in ragione del fatto che non si tratta, dunque, solo di una questione di emergenza sanitaria. In secondo luogo, di per sé lo Human Challenge è una pratica accettata e accettabile laddove il rischio per il volontario sano infettato non sia un rischio molto elevato”. Già nel 2016, del resto, come già approfondito dalla collega Federica D’Auria in un precedente servizio, l’Organizzazione mondiale della Sanità aveva stilato delle linee guida per regolare gli Human Challenge Studies per lo sviluppo di vaccini e pochi mesi fa ha pubblicato un documento specifico nel caso si intendano sviluppare vaccini contro Covid-19 attraverso questo tipo di studi.

Nel caso di patologie non gravi quindi – continua Savarino – possiamo accettare di condurre questo tipo di sperimentazioni. In questo caso (nell’attuale pandemia ndr), però, a me sembra molto dubbia e problematica. Naturalmente, non pretendo di dare un giudizio definitivo. Quello che intendo dire è che se vogliamo abbreviare la fase 3 e imboccare strade che permettano di produrre un vaccino efficace in tempi ragionevolmente brevi, dobbiamo essere certi che questo tipo di sperimentazione sia sicuro ed efficace”. Il docente sottolinea che Covid-19 è una patologia per la quale non esiste attualmente una cura efficace, e quindi il livello di rischio potrebbe essere molto elevato. “Il problema a me pare che sia ampiamente aperto. La tentazione di procedere con delle scorciatoie è molto forte. Gli Stati che hanno già deciso di abbreviare la fase 3, cioè la Cina e la Russia, sono Paesi in cui le procedure e le regole anche democratiche di ricerca e di sperimentazione sono sostanzialmente molto diverse, direi quasi più deboli, rispetto a quelle dei Paesi occidentali, dunque Europa e Stati Uniti, e questo non mi sembra un segnale incoraggiante”.

Il Comitato Nazionale per la Bioetica nelle scorse settimane, sottolinea Savarino, è intervenuto sul tema della ricerca biomedica nel contesto della pandemia Covid-19, assumendo una posizione “prudente e saggia”: i tempi della sperimentazione, si dichiara, possono essere ridotti semplificando le procedure amministrative, senza aggirare i requisiti scientifici, etici e giuridici degli studi clinici.

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