CULTURA

Venezia 1600. La Biennale, culla delle arti del nostro tempo

Sul finire dell’Ottocento, Venezia è una città che vive nella nostalgia, nutrendosi del dorato ricordo dei fasti del passato. Gli splendidi palazzi nobiliari, le calli e le piazze sono silenziosi, e risentono del tempo che passa inclemente.

Nel 1890 diviene sindaco della città il letterato Riccardo Selvatico, poeta e commediografo, politico di orientamento progressista. Il suo sogno è rilanciare Venezia, riportarla all’antico splendore facendone un polo culturale della nuova Italia, da poco unificata.

Ci piace immaginare che l’idea di inaugurare un’esposizione artistica a Venezia, città d’arte per eccellenza, sia nata tra le cene e le discussioni conviviali che erano occasione di ritrovo per gli intellettuali veneziani del periodo. Un’Esposizione Nazionale di pittura e scultura, in effetti, si era già tenuta a Venezia pochi anni prima, nel 1887, e aveva ricevuto un grande successo di pubblico e di critica.

Fu proprio a partire da quell’esperienza che il sindaco Selvatico e il suo circolo svilupparono l’idea di organizzare, nella città, una mostra artistica più ampia e strutturata, sulla falsariga delle grandi esposizioni d’arte che si tenevano, ormai da qualche tempo, nelle grandi città europee. E il progetto non tardò a prendere vita: l’Esposizione venne istituita con deliberazione della giunta comunale nel 1894, e aprì i battenti l’anno successivo. Nel 1895 veniva dunque inaugurata – alla presenza del re, della regina e di alcune fra le personalità più in vista del Regno d’Italia – la Prima Esposizione Internazionale d’Arte della Città di Venezia, che sarebbe poi diventata universalmente nota come la Biennale.

Fin dalla sua prima apertura, l’Esposizione venne ospitata all’interno dei Giardini napoleonici, dove, nel 1894, era stato costruito il primo degli edifici destinati a ospitare la Mostra nel corso del tempo: nella sua prima veste, l’attuale “Padiglione Italia” venne nominato “Pro Arte”, e proprio al suo interno si tennero le prime edizioni dell’esposizione. Fu solo a partire dal 1907, infatti, che diversi Paesi esteri intrapresero, all’interno dei Giardini, la costruzione di padiglioni nazionali.

La Biennale degli esordi: una bellezza conservatrice

Fin dalla sua prima istituzione, la Biennale riscontrò grande favore nel pubblico: le mostre erano molto frequentate, e i proventi derivanti dalla vendita delle opere d’arte – in gran parte devoluti in beneficenza dal Comune veneziano – piuttosto alti. Tuttavia, già a pochi anni dalla sua fondazione, la Biennale dovette affrontare le prime contestazioni. Seppur di successo, le esposizioni erano additate come conservatrici: a decidere quali opere sarebbero state di volta in volta esposte erano, difatti, accademici italiani ed europei già affermati, le cui scelte artistiche escludevano sistematicamente le molte avanguardie che, nei primi anni del Ventesimo Secolo, animavano le città di tutta l’Europa. Rappresentativo dell’atmosfera veneziana di quegli anni, decisamente ostile alle avanguardie artistiche, è un episodio risalente al 1905: in quell’anno la giuria aveva selezionato, tra le opere da esporre, una tela di Picasso. L’allora presidente dell’istituzione, tuttavia, decise di far rimuovere il quadro dalle sale, e dichiarò in proposito che «con la sua novità avrebbe potuto scandalizzare il pubblico». Fino al 1948, nessuna delle opere di Pablo Picasso venne più esposta alla Biennale.

Nei primi anni del secolo, la tensione tra gli organizzatori della Biennale e gli avanguardisti cresceva: nel 1910 Filippo Tommaso Marinetti gettava dalla Torre dell’Orologio in piazza San Marco i suoi famosi volantini futuristi, per risvegliare la “Venezia passatista”.

Bruciamo le gondole, poltrone a dondolo per cretini, ed innalziamo fino al cielo l’imponente geometria dei ponti metallici e degli opifici chiomati di fumo, per abolire le curve cascanti delle vecchie architetture. Filippo Tommaso Marinetti

Nel frattempo i numerosi giovani artisti che, di anno in anno, vedevano le proprie opere rifiutate dalla Biennale, andarono ad ingrossare le fila di una sorta di contro-Biennale che aveva il suo quartier generale alla Ca’ Pesaro, sontuoso palazzo affacciato sul Canal Grande, che dal 1902 era stato donato al Comune dalla sua ultima, nobile proprietaria (Felicita Bevilacqua La Masa) ed era divenuto la sede della Galleria Internazionale d’Arte Moderna.

L’arte, le guerre, il fascismo

Dopo la Prima Guerra Mondiale, l’entusiasmante esperienza degli avanguardisti ribelli di Ca’ Pesaro va scemando. Nei confusi anni che separano i due conflitti mondiali, l’Italia viene presa sotto la morsa del fascismo. Anche l’arte ne risente: il futurismo, ad esempio, uno dei movimenti più intraprendenti e innovativi della scena artistica internazionale, viene del tutto fagocitato all’interno della retorica di regime. E il fascismo si appropria anche della Biennale: dal 1926 al 1942 sarà affidata proprio a Marinetti, autore del Manifesto del Futurismo, la curatela della mostra sulla pittura futurista.

Sotto il fascismo, la Biennale vive grandi cambiamenti: nel 1930 l’istituzione viene scissa dal Comune (fino a quel momento la prassi voleva che il sindaco di Venezia divenisse automaticamente presidente dell’Esposizione), e diviene Ente Autonomo. Nel 1932, inoltre, la mostra viene ampliata: nascono nuovi settori, come il Convegno d’Arte Contemporanea, il Convegno sulla Poesia e, soprattutto, la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, il primo Festival al mondo dedicato alla settima arte. Due anni dopo, nel 1934, viene inaugurato un nuovo settore, dedicato al Teatro.

Importanti innovazioni, dunque, che rimarranno in vita anche dopo l’epoca fascista; eppure, la “fascistizzazione” della Mostra è evidente, e in quegli anni di fragili equilibri geopolitici sono molti i padiglioni che rimangono deserti per intere edizioni. La guerra, infine, fa sentire il suo peso anche in Italia, e nel 1942 la Biennale viene sospesa. L’arte torna ad animare i Giardini soltanto dopo la fine della guerra, nel 1948.

Crisi e rinascite: l’arte e la politica

Nei primi anni del dopoguerra la società è permeata da un forte desiderio di riscatto, che l’arte – come sempre – sublima e valorizza attraverso i suoi molteplici linguaggi. La prima Biennale dell’Italia repubblicana, tenutasi nel 1948, vuole recuperare il tempo perduto, dando finalmente spazio a tutte quelle avanguardie che, nel corso del Ventennio, erano state messe a tacere: finalmente, le opere di Picasso trovano spazio alla Biennale.

Tuttavia, con la libertà d’espressione torna anche la libertà di critica: nel corso degli anni ’50 la Biennale è nuovamente sotto attacco, soprattutto per via delle decisioni riguardanti l’assegnazione dei Gran Premi, istituiti nel 1938. Nel 1964, il Gran Premio per il settore artistico va alla Pop Art americana: la polemica travolge l’Esposizione, e si parla di “prepotenza del mercato americano nell’arte”. La Biennale viene accusata di essere retrograda e incapace di rappresentare le istanze sociali e culturali di una società in forte cambiamento.

Questo latente scontro intergenerazionale deflagra nel 1968: sulla scia delle proteste che scuotono, nel corso dell’anno, tutto il mondo occidentale, molti studenti europei scelgono proprio la Biennale come “obiettivo esemplare” della cultura borghese contro la quale lottano, e che vogliono abbattere. Nei volantini studenteschi circolanti in quei giorni si legge: «La Biennale è lo strumento della borghesia per codificare una politica di razzismo e di sottosviluppo culturale attraverso la mercificazione delle idee». L’edizione di quell’anno – la “Biennale dei padroni”, come è definita dai contestatori – è percorsa da manifestazioni studentesche, alle quali diversi artisti aderiscono coprendo, o girando verso il muro, le proprie opere.

La Mostra del 1968 va avanti, tutto sommato, senza grandi imprevisti. E tuttavia gli stessi organizzatori si rendono conto di quanto l’istituzione abbia ormai bisogno di un rinnovamento radicale. Dopo il 1968, infatti, tutto cambia: la Biennale vive un momento di profonda crisi. L’edizione del 1970 è ridotta, i Gran Premi vengono aboliti, l’Ufficio Acquisti rimane chiuso. Nel 1973 viene finalmente approvato un nuovo statuto, che sancisce la comparsa di una nuova Biennale, molto più settoriale e, soprattutto, più attenta a rappresentare il gusto e il sentire della società civile. Le edizioni successive, infatti, hanno al centro grandi temi politici: dalla Biennale del 1974, interamente dedicata al Cile, caduto nelle mani della dittatura militare di Pinochet, alle edizioni del 1976 e del 1978, che danno spazio alla tematica ambientalista, da alcuni anni comparsa nel dibattito pubblico.

Gli anni ’80 sono i protagonisti di una nuova “normalizzazione” della Biennale, che finalmente si lascia alle spalle il turbolento periodo delle contestazioni sociali e della militanza politica. Sotto la presidenza dello storico Giuseppe Galasso, che si insedia nel 1980, la Biennale si arricchisce di un nuovo settore autonomo, dedicato all’Architettura, che sarà affidato per lungo tempo a Paolo Portoghesi, architetto fra i più noti in Italia.

In linea con la “normalizzazione”, nel 1986 vengono ripristinati i Gran Premi, che erano stati sospesi fin dal 1968, quando i giovani accusavano la “Biennale dei Padroni” di favorire il “monopolio americano” del mercato dell’arte.

Una Biennale centenaria

In vista delle celebrazioni del centenario vengono al pettine diversi dei nodi di una Istituzione che, negli anni, si era ritrovata, nella sua cerchia direttiva, sempre più legata alle vicende della politica nazionale. Con la fine della prima Repubblica, infatti, la questione della scelta dei direttori di settore si faceva spinosa: fino a quel momento erano stati, chi più chi meno, espressione dei partiti. Vi era addirittura chi, nel panorama culturale italiano, proponeva di chiudere la Biennale, concludendo con il centenario l’avventura artistica probabilmente più importante del Novecento italiano. Eppure, come sappiamo, questo scenario non si verifica: con grande ingegno l’allora presidente, Gian Luigi Rondi, esce dall’impasse politica chiamando alla direzione di tre dei settori artistici della Biennale (Arti Visive, Architettura e Teatro) personalità straniere, libere da legami con il mondo politico italiano.

Questa autonomia, comunque, non dura a lungo. Nel 1998 è ormai imminente la riforma amministrativa della Biennale, che, con un decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale, viene privatizzata, trasformandosi nella “Società di Cultura della Biennale”. La transizione viene affidata al nuovo presidente Paolo Baratta, che negli anni del suo mandato si impegna nel rafforzare la struttura amministrativa ed espositiva della Biennale, ampliando gli spazi espositivi in luoghi storici e suggestivi della città lagunare, e offrendo nuovo lustro a settori che negli anni avevano ricevuto scarsa considerazione, come la Musica, il Teatro e la Danza.

Nei primi anni Duemila l’Esposizione, già data per spacciata, riprende vita: le edizioni di quegli anni sono innovative, aperte alle avanguardie, ai giovani artisti e alle forme espressive più diverse, provenienti da ogni angolo del mondo.

Dal 2007 Paolo Baratta è nuovamente presidente, e prosegue le sue attività di rifondazione e di rilancio dell’ormai più che centenaria Esposizione d’Arte. Il suo lavoro è importante per la Biennale, e viene riconosciuto nel 2010, quando Baratta è nominato “Veneziano dell’anno” «per aver consolidato la secolare presenza della Biennale nella vita della città, con una visione strategica che vede Venezia sede universale dell’arte e della cultura».

Primato di cui la città si fregia ancora oggi: appare leggera, seppur gravida di storia; ospite accogliente – proprio grazie alla Biennale – delle più visionarie innovazioni espressive; capace di riunire in sé attenzione al passato, comprensione del presente e slancio verso il futuro.

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