Venezia 82: “Il rapimento di Arabella”, una commedia nera dei rimpianti

Ci sono opere che scelgono di raccontare storie come se fossero uno specchio del reale, e altre che preferiscono restituirle come se fossero riflesse da una superficie incrinata, dove tutto appare un po’ deformato e surreale. Carolina Cavalli appartiene a questa seconda categoria: con il suo cinema non cerca la trasparenza della realtà, ma la sua torsione: prende la vita quotidiana, la mette sotto una lente grottesca e malinconica allo stesso tempo, e la lascia deflagrare in situazioni assurde che però ci parlano, in filigrana, di un disagio molto concreto.
Dopo l’esordio con Amanda nel 2022, accolto con entusiasmo e riconosciuto come uno dei tentativi più originali di raccontare una generazione spaesata, Cavalli torna a Venezia con il suo secondo lungometraggio, Il rapimento di Arabella, presentato nella sezione Orizzonti.
Una storia di sogni mancati
Ancora una volta al centro c’è Benedetta Porcaroli, ormai legata a doppio filo al mondo creativo della regista, e ancora una volta c’è una protagonista fragile, borderline, convinta di essere “la versione sbagliata di sé stessa”, come la stessa Cavalli spiega nelle note di regia. Ma se in Amanda la solitudine era circoscritta a un contesto urbano realistico, qui tutto si spinge più in là: i personaggi sono caricature viventi, i dialoghi sembrano usciti da un cabaret dell’assurdo, i luoghi evocano un’America che in realtà non esiste, ricostruita con dettagli volutamente stranianti in un’Italia che si traveste da qualcosa di diverso eppure vicino a sé stessa. Il risultato è un film che non assomiglia a nessun altro: grottesco fino alla comicità, eppure attraversato da un dolore sotterraneo, quello dei sogni mancati.
Il titolo stesso gioca sull’ambiguità: sembra annunciare un thriller o un dramma giudiziario, ma il “rapimento” che vediamo non è quello tradizionale, e in realtà non è neanche un rapimento in senso proprio. Non ci sono criminali, non ci sono riscatti, non c’è suspense poliziesca. C’è invece una ragazza, Olivia detta Holly, che per superare la perdita della madre e i rimpianti che la schiacciano si convince che una bambina incontrata per caso sia lei da piccola. Rapirla significa, per lei, rapire il tempo, piegare il continuum spazio-temporale che studia ossessivamente mentre cerca di laurearsi in fisica, tentare di riscrivere la propria storia. È un gesto disperato, ma anche infantile, che mette insieme psicosi, nostalgia e desiderio di redenzione. Eppure, in questo paradosso, Cavalli trova una chiave universale: chi non ha mai pensato, almeno una volta, che la propria vita avrebbe potuto andare diversamente, se solo a otto anni avesse avuto il coraggio di fare un’altra scelta?
Il rimpianto si traveste da grottesco
Ma prima ancora che il film si trasformi in questo viaggio surreale, Cavalli dissemina segnali di assurdità che ci suggeriscono un mondo popolato di nevrotici, a cui l’infanzia cerca di rispondere una delle poche armi che ha: la ribellione. Arabella, litiga con il padre scrittore che deve leggere un discorso a una cena elegante, mentre lei starà al tavolo dei bambini. Lei lo minaccia con parole che nessun bambino reale userebbe, evocando la presunta (ma molto probabile) invidia paterna per Jonathan Franzen e l’evasione fiscale come se fosse la cosa più naturale del mondo. La battuta fa ridere, certo, ma è una risata nervosa: il padre è così distante da sua figlia da non cogliere neppure la stranezza della minaccia, e il pubblico capisce che in questo universo persino l’infanzia è contaminata dal cinismo adulto.
È proprio da qui che il film comincia a stratificare i suoi registri: da una parte la comicità, con camerieri di fast food che dichiarano di avere il divieto di piangere sul cibo e scrittori in crisi che pagano prostitute perché leggano i loro scritti; dall’altra la malinconia che scivola sotto pelle, perché in ogni scena assurda si intravede la voragine di una vita che non è andata come doveva. Il grottesco non è mai solo grottesco, è un travestimento del rimpianto. E quando Holly decide di partire con Arabella per andare a incontrare Granatina, la vecchia che un tempo le aveva promesso un futuro da ballerina, lo spettatore capisce che non sta assistendo a un rapimento, ma a una disperata operazione di auto-soccorso mentale. Holly vive una vita che sembra non essere la sua, e si è attivata per trovare una soluzione, per quanto filtrata dalla psicosi di cui sembra soffrire.
Ecco allora che l’introduzione del film diventa, per lo spettatore, una sorta di manifesto: in questo mondo niente è realistico, tutto è deformato, eppure proprio in questa deformazione si nasconde una sincerità che il realismo non avrebbe saputo restituire. Come accadeva già in Amanda, ridiamo di fronte a dialoghi implausibili, a personaggi sopra le righe, a situazioni che sembrano nate da un dialogo tra ubriachi. Poi, però, quando le risate (o il fastidio, perché a volte sembra tutto “troppo”) si spengono, resta l’eco amara di chi si accorge di non aver mai realizzato i propri sogni.
Figure grottesche: tra fast food e scrittori falliti
Se Holly e Arabella sono il cuore emotivo del film, il paesaggio che le circonda è popolato da figure che sembrano specchi deformanti che amplificano il tema centrale del film: la vita come promessa mancata, come farsa che nasconde un rimpianto.
Prendiamo il dipendente di Taco King. È un personaggio che appare per pochi minuti, eppure resta scolpito nella memoria. Holly lo aveva minacciato, in realtà un ricatto puerile, legato a un dettaglio ridicolo: se non le avesse dato delle patatine, avrebbe detto al servizio clienti che non si legava i capelli. L’uomo, interrogato in seguito, reagisce con una frase che spiazza: “Devo allontanarmi, non ci è permesso piangere sul cibo”. Si ride, certo, ma è una risata storta, perché il paradosso nasconde una verità: ci sono luoghi e lavori in cui il dolore deve essere messo da parte, in cui la fragilità non ha cittadinanza. Il fast food come spazio di alienazione, insomma, dove perfino il pianto è bandito, diventa una metafora del mondo intero che Holly e Arabella stanno attraversando.
Un padre nevrotico e inetto
Ma è con il padre di Arabella, Oreste (Chris Pine), che Cavalli spinge più in là il registro del grottesco. Oreste si veste come un autore di culto, parla come se fosse sempre su un palco, sembra credere alla propria celebrità più di chiunque altro. In realtà è un nevrotico incapace di gestire anche le situazioni più elementari: davanti al rapimento della figlia, resta inerte, quasi indifferente. L’ex moglie lo appella senza giri di parole, smontando ogni residuo di prestigio intellettuale e lo spettatore non si sente di darle torto quando sente gli insulti. Oreste è una figura tragicomica, una maschera dell’egocentrismo maschile che scambia il narcisismo per autorevolezza.
“ Ho perso mia figlia in un fast food in cui non l’ho nemmeno mai portata
La sua assurdità raggiunge il culmine nei rapporti con una prostituta: Oreste non la paga per le prestazioni sessuali, ma perché lo ascolti mentre legge i suoi scritti: il suo bisogno più urgente non è il sesso, ma essere ascoltato, compreso, confermato come autore. Lei però lo tratta con una brusca lucidità che diventa comica proprio perché inaspettata: nel pieno della crisi per la figlia scomparsa, per esempio, Oreste le chiede: “Come faccio ad ammazzarmi?”. E lei, senza scomporsi, risponde: “Perché lo chiedi a me? Non vedi che sono viva?”. Una battuta che sembra uscita da Beckett, capace di smontare con un colpo solo la retorica tragica del personaggio.
Una sceneggiatura di pregio
Questi dialoghi sono forse i più riusciti del film, perché condensano il tono che Cavalli cerca: situazioni che sulla carta potrebbero sembrare grottesche in modo gratuito, ma che al cinema fanno scattare associazioni e aprono mondi. La prostituta, personaggio marginale, si trasforma nella voce più razionale dell’intera vicenda, e appare come la figura più sensata del film. Attorno a loro, altri personaggi minori contribuiscono alla stessa atmosfera di straniamento: ognuno sembra avere una battuta surreale da consegnare al pubblico, una scheggia di follia che incrina il tessuto della realtà.
Un road movie verso il nulla
Il film prende la forma di un road movie esistenziale: macchine rubate e prese in prestito, parcheggi di periferia, motel che sembrano usciti da un film americano parodistico: Holly ci entra con un’idea fissa, piegare il tempo come fosse gomma, e ci trascina dentro Arabella, che invece, a dispetto dei suoi pochi anni, sembra comprendere meglio la realtà, anche se vuole continuare a giocare il gioco di Holly, assecondandola dall’inizio. L’incontro al Taco King è il clic che avvia il meccanismo, ma il movimento vero è mentale. Holly studia fisica, parla di continuum spazio-temporale, si aggrappa a parole che hanno un suono solido ma sono concetti labili. Arabella le dice quello che vuole sentirsi dire, quando vede la targhetta del nome sulla divisa di Holly afferma di chiamarsi così solo perché vuole che lei la porti via, non importa dove, un qualsiasi posto dove non ci si senta schiacciati dalla realtà.
La missione di Holly è semplice: è convinta che Arabella sia la sé stessa bambina, e vuole portarla da Granatina, la donna che, molti anni prima, aveva detto alla piccola Holly che era speciale, che le avrebbe insegnato a ballare.

IL RAPIMENTO DI ARABELLA (THE KIDNAPPING OF ARABELLA) - Actress Eva Robin's
Holly non sogna tanto di salvare una bambina trascurata, quanto di rimettere in riga la propria biografia: se Arabella è davvero “Holly a otto anni”, allora si può correggere l’errore, non fingere di zoppicare, non mollare la lezione, diventare finalmente qualcuno. È un programma di redenzione destinato a schiantarsi sulla realtà, ma intanto dà senso al “qui e ora”.
La redenzione che si schianta sulla realtà
Quando Granatina finalmente appare, la scena non cerca l’enfasi, ma scivola via con le speranze di Holly. La ballerina non è una fata madrina, è solo una vecchia che si confonde, contratta, prova a spillare denaro. In controluce, si rivede l’istante che ha creato la frattura: la bambina Holly che si inventa una zoppia per non ballare. Quell’alibi infantile è diventato col tempo una diga: ha trattenuto dietro di sé l’idea di ciò che “saremmo potute diventare” e ora, davanti a Granatina, la diga cede in silenzio. Nessuna frattura, nessuna grossa rivelazione: solo l’evidenza che il passato non si recupera per delega, non si recupera e basta.
Qui Arabella ha un’evoluzione: vede il trucco e lo dice. È il suo modo di proteggere Holly, non assecondandone la fantasia, ma togliendole il paraocchi. In questo ribaltamento di ruoli, la bambina diventa adulta, il momento in cui il film, che fin lì ha accarezzato l’assurdo come fosse una via percorribile, mostra il conto del rimpianto: nessuno ci restituirà il nostro passato, nessuna Granatina custodisce un destino sospeso in un cassetto.
Granatina, con la sua smemoratezza, firma la liberazione più crudele: non c’è altra vita, c’è solo questa. Se è una buona o una cattiva notizia, sta al pubblico stabilirlo.
Le promesse invecchiano male e chi è cresciuto a pane e rimpianto per le occasioni perdute deve prendere atto del fatto che bisogna passare dall’ossessione di diventare speciali alla possibilità meno scintillante (e più adulta) di diventare oneste con sé stesse. In un film dove nessuno è veramente centrato, è l’atto più radicale, e dietro c’è anche una sorta di speranza: diventare adulti migliori degli attuali, meno inetti e vanitosi.
Amanda, di nuovo
Arrivati a questo punto, una domanda si impone: quanto c’è di nuovo in Il rapimento di Arabella rispetto ad Amanda? La continuità è evidente: stessa regista, stessa protagonista, stessa fascinazione per personaggi femminili giovani, eccentrici, incapaci di stare al passo con le regole del mondo. È una scelta di coerenza o il rischio di un déjà-vu?
Benedetta Porcaroli, nel ruolo di Holly, mette in campo un repertorio che conosciamo bene: pause prolungate, posture rigide, una dizione che sembra sempre in ritardo di mezzo secondo rispetto al pensiero e soprattutto un modo di recitare che ha segnato la sua carriera, dal successo internazionale di Baby fino al personaggio di Amanda, e che ormai è diventato quasi un marchio. Funziona ancora, ma rischia di diventare prevedibile, nel tentativo di imitare i personaggi nevrotici interpretati da Laura Morante. Forse bisognerebbe interrompere il pur efficace sodalizio Cavalli Porcaroli, che ha prodotto un cortocircuito creativo che ha originato due film di indubbia coerenza stilistica, ma che solleva il sospetto di un gioco a ripetizione. Quanto durerà? È la domanda che resta sospesa alla fine della visione: avremmo voglia di vedere la Cavalli osare con una scrittura che metta Porcaroli alla prova su un registro diverso, e la Porcaroli rischiare con un ruolo che non le conceda la comfort zone del disadattamento malinconico.
Lucrezia Guglielmino, una giovane promessa
Eppure, anche in questo scenario di possibile ridondanza, c’è un contrappunto che rende il film meno prevedibile: Lucrezia Guglielmino. Nei panni di Arabella, la giovane attrice è sorprendente per freschezza e precisione. Evita con cura il rischio della leziosità infantile, non cade mai nel cliché della bambina troppo matura o, al contrario, della piccola isterica, tutto nel suo personaggio è ben bilanciato. Arabella è arguta, sarcastica, diretta, e Guglielmino la interpreta con un ritmo che naturale, che stempera la ripetizione: dove Porcaroli tende a ripiegarsi su un’interpretazione già rodata, Guglielmino porta aria nuova. E soprattutto porta una forma di verità che si incastra perfettamente con il tono della Cavalli. Perché il paradosso è questo: più assurdi diventano i dialoghi, più il film ha bisogno di interpreti che li dicano con la serietà di chi sta recitando Čechov.
Un sogno che si spegne, ma solo a metà
La questione è delicata: si può rimproverare a un’autrice al secondo film di avere “troppa coerenza”? Forse no, ma si può osservare che il suo cinema si trova davanti a un bivio. Continuare a esplorare lo stesso personaggio, rischiando la saturazione, oppure deviare altrove, cercando un’altra chiave. Quel che è certo è che Cavalli, con due film, ha già imposto un marchio riconoscibile: un mondo grottesco, ironico, malinconico, in cui i protagonisti sono sempre figure eccentriche che si muovono ai margini. E forse il suo merito maggiore, oggi, è quello di aver trovato in Guglielmino una nuova alleata capace di allargare il registro.
Il rapimento di Arabella non è un film rassicurante. Non ha eroi positivi, non ha trame consolatorie, non cerca di addolcire la realtà. È un film in cui tutti sono un po’ assurdi e un po’ disperati, e in cui le risate si intrecciano ai sospiri. Carolina Cavalli conferma la sua voce originale, capace di trasformare nevrosi e fallimenti in una commedia nera che, sotto sotto, parla di rimpianto e desiderio di redenzione.
E alla fine, quando Holly viene processata, il sogno si spegne, ma non del tutto. Perché resta l’eco di quel viaggio impossibile, la sensazione che per un attimo si potesse davvero riscrivere il passato. E forse, in quell’illusione, sta il senso del film: ci rapisce non tanto una bambina, ma la possibilità, assurda e struggente, di essere stati diversi.