CULTURA

1975: Ronconi e la Biennale che mutò Venezia e il teatro

Cinquant’anni fa, la città più teatrale del mondo decise di sconfessare se stessa. A Venezia, la direzione della Biennale Teatro e Musica veniva affidata per il triennio 1974 – 1976 a Luca Ronconi, regista che pochi anni prima, con la messinscena dell’Orlando Furioso (1969) che Edoardo Sanguineti aveva tratto da Ariosto, aveva ottenuto la consacrazione internazionale con un allestimento di formidabile impatto innovativo, basato su più “macchine teatrali” mobili che, in contemporanea, nello spettacolo venivano spostate dagli stessi attori, lasciando il pubblico libero di fluire e vagare da un polo drammaturgico a un altro. Con l’Orlando, Ronconi aveva rivoluzionato il concetto di spazio teatrale, che da scena fissa e unitaria introduceva una pluralità di azioni tra cui gli spettatori, coinvolti in prima persona nello spettacolo, potevano e dovevano scegliere. La visione di Ronconi rappresentava, dunque, una sfida quasi eversiva rispetto alla teatralità insita nell’architettura veneziana: la città-palcoscenico per eccellenza, sfondo naturale di infiniti maneggi goldoniani, ma anche quinta meravigliosa e irreale di film, romanzi, eventi che si nutrivano della sua eccezionalità, con Ronconi sembrava destinata a stravolgere questa rendita di posizione per aprirsi a una dimensione inaudita.

Ronconi non tradisce le aspettative, e nel triennio in cui dirige la Biennale trasforma la città in un immenso palco-laboratorio, chiamando i maggiori gruppi teatrali impegnati nella ricerca (tempo prima si sarebbe detto avanguardia) di forme e linguaggi capaci di aprirsi a un pubblico indifferenziato, partecipe di uno sforzo comune che era l’ambizione dell’epoca: immaginare il teatro come strumento per incidere sul presente, opera collettiva in cui artisti e spettatori cooperassero, in una nuova consapevolezza, per porre i presupposti per una società diversa e più umana. Valori, si comprende bene, legati a una fase che appare molto lontana, ma che si respirano con intensità nel documentario di Jacopo Quadri 75 - Biennale Ronconi Venezia, che (malgrado il titolo da topi d’archivio) rievoca un’esperienza, quella della Biennale 1975, che oggi appare irripetibile, e quasi surreale, per molti motivi. Anzitutto per l’uso che viene fatto della città: il centro storico, le periferie, la terraferma diventano per tre mesi (da fine agosto a fine novembre) un unico spazio a disposizione del disegno ronconiano, che invade campi, chiese, teatri, ma soprattutto luoghi non tradizionali come cantieri navali, isole abbandonate, paesi dell’entroterra lasciandoli “in pasto” ai gruppi protagonisti, dal Living Theatre a Grotowski, dall’Odin Teatret a Giuliano Scabia e molti altri. È certamente una linea che si inquadra in un periodo di forti contestazioni (il Teatro La Fenice viene occupato, è intensa l’aspirazione collettiva a modalità e luoghi alternativi a quelli istituzionali) ma soprattutto è coerente con la concezione di fondo ronconiana.

Le immagini di Jacopo Quadri (figlio del critico teatrale Franco Quadri, tra i protagonisti di quella stagione) testimoniano di una Venezia allagata in ogni pertugio da teatranti e pubblico, senza troppe regole o limiti, con largo spazio all’improvvisazione e all’imprevedibilità delle performance-evento: qualcosa che oggi, tra i flussi debordanti di turisti governati a fatica e il ritorno a una dimensione più tradizionale dello spazio scenico, apparirebbe irrealizzabile. Ma la sensazione ancora più lontana e straniante che suscitano i fotogrammi di quella Biennale è legata al tentativo di organizzare una vera manifestazione di popolo, un teatro che si apra a un pubblico di operai, casalinghe, persone comuni, ne colga drammi e inquietudini, e ne consenta la piena partecipazione (va ricordata l’iniziativa dei biglietti a cento lire, fortemente criticata da Goffredo Parise perché avrebbe dato la percezione del deprezzamento dell’arte). In 75 - Biennale Ronconi Venezia (disponibile in streaming su Now) le formidabili immagini di questo piccolo esperimento di sovversione di spazi e relazioni si alternano alle testimonianze di attori e registi che parteciparono, come interpreti o spettatori, all’edizione ronconiana.

Ne emerge un quadro segnato dalla nostalgia per un tentativo che fu unico, quasi eroico, e insieme la constatazione che l’utopia (come il titolo di uno spettacolo dello stesso Ronconi), vero presupposto dell’agire in un contesto così libero e destrutturato, a volte rendeva le messinscene più dei manifesti che dei veri spettacoli (molti critici contesteranno quella Biennale come promozione del “teatro che non c’è”, del “teatro incomprensibile”, un laboratorio permanente senza spettacolo). E forse, per chi non ha vissuto quella stagione, un difetto del documentario è di puntare sulle immagini e sulle testimonianze, dando per scontata la conoscenza, almeno superficiale, dei linguaggi e dei valori che stavano alla base di molti dei gruppi presenti: la visione di 75 - Biennale Ronconi Venezia diventa così, più che un’analisi puntuale dell’offerta teatrale che Ronconi aveva selezionato, un tuffo nell’immaginario e nell’atmosfera di quei tre mesi, un patchwork di suoni, voci e visioni (tutte in bianco e nero) che, se non pretende di raccontarci in profondità opere e idee, ci permette però di tuffarci nel mare di frammenti di quella stagione, lontana e quindi un po’ struggente, in cui Venezia, grazie a Ronconi, presentò al mondo un’immagine stravolta: libera, popolare, anarchica, sperimentale. Troppo, forse, per la città del Campiello.

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