CULTURA

Venezia e Protestantesimo, tra “eretici” e inquisitori

Una Città, due volti, ma forse solo in apparenza. Pensi a Venezia e tra le prime cose vengono in mente le sue chiese: dagli splendori di San Marco alla severa maestosità dei Frari, passando per centinaia di chiesette e cappelle, ciascuna custode del suo tesoro di arte, cultura e devozione. Ma Venezia era anche un emporio in cui si incontravano uomini e idee di tutte le lingue e le religioni, oltre che sede di uno Stato forte e sicuro di sé, che alla bisogna non esitava a scontrarsi con la Chiesa cattolica romana. Fino a ricevere addirittura l’interdetto: all’inizio del Seicento infatti la Repubblica arrestò due ecclesiastici colpevoli di reati comuni, e per risposta papa Paolo V reagì proibendo la celebrazione delle messe e la somministrazione dei sacramenti in tutti i territori della Serenissima. E alla fine fu Venezia, difesa dal suo teologo di Stato Paolo Sarpi, a spuntarla e a piegare il papa.

Certo non si può certo parlare di laicità nel senso che le attribuiamo oggi – la religione rimaneva comunque un affare di Stato, e della massima importanza – ma di pluralismo certamente sì. Non solo perché Venezia fu un fiorente centro di vita e di cultura ebraica, ma anche perché con il crescere dei possedimenti nel levante si ritrovò con una parte consistente di sudditi professanti la fede cristiana ortodossa. Infine, a partire dagli anni ’20 del Cinquecento, arrivarono anche le nuove idee della Riforma. Quest’ultimo aspetto della storia veneziana è trattato in un interessante libro di Cristina Gregorin, illustrato dalle fotografie di Norbert Heyl (Venezia eretica. Tra riforma protestante e inquisizione, Cleup 2019).

la Riforma non attecchì in laguna, ma non fu priva di influenze sulla cultura e l’arte veneziana

Verso la Riforma, si evince dal libro, l’atteggiamento della Serenissima fu ambivalente, ondeggiante tra una politica ufficiale di repressione e periodi caratterizzati da una sorta di tolleranza di fatto. L’autrice traccia una mappa dei luoghi del protestantesimo a Venezia: dalla ruga degli Oresi a Rialto, dove alcuni artigiani si ritrovavano insieme nei retrobottega a leggere e a commentare insieme le Scritture, a Palazzo Morosini sul Canal grande, teatro nei primi anni del Seicento di un cenacolo di nobili e intellettuali filoprotestanti, fino alla convento di San Domenico in Castello, dove risiedeva l’inquisitore e dove ogni anno il 29 aprile venivano bruciati i libri eterodossi.

Strumento principe per stroncare la diffusione del protestantesimo fu il Sant’Uffizio (istituito da Paolo III nel 1542 con la bolla Licet ab initio), a cui Venezia si adeguò, ma affiancando ai giudici ecclesiastici della sezione locale del Tribunale dei rappresentati secolari, i Savi all’eresia. Sono circa ottocento gli atti dei processi pervenuti fino a noi, di cui circa 20-25 si risolsero con la condanna a morte, inflitta a chi si rifiutava di abiurare o a chi, avendo già ritrattato una volta, era tornato a fare proselitismo. La maggior parte degli indagati optò per la ritrattazione, magari tenendo le proprie convinzioni per l’ambito privato o familiare: il governo della Serenissima sembrava infatti più preoccupato per le fratture sociali derivanti dalla Riforma, piuttosto che per la salvezza dell’anima dei suoi sudditi.

Discorso diverso valeva per le comunità straniere, che la Repubblica continuò a trattare con il solito pragmatismo: business is business e in Laguna lo hanno sempre saputo. Il Fontego dei tedeschi, la più importante rappresentanza commerciale straniera in città, divenne così fulcro di emanazione delle nuove idee: una vera “serpe in seno”, per usare le parole del nunzio pontificio Bolognetti nel 1580. Lo stesso lamentava che nella vicina chiesa di San Bartolomeo, frequentata soprattutto da mercanti e viaggiatori d’oltralpe, si tenessero sermoni eretici, difficili da controllare a causa della lingua. In seguito il Fondaco iniziò ad avere anche le sue liturgie e i suoi pastori, spesso introdotti di nascosto ma con la tolleranza dell’occhiuto sistema di polizia veneziano.

Stesso atteggiamento accondiscendente, come è noto, fu tenuto dalla Serenissima anche in Terraferma. Anche dopo il Concilio di Trento ad esempio l’università Padova continuò a ospitare studenti provenienti dai Paesi protestanti. A partire dal 1616 infatti per gli studenti non cattolici fu creato un percorso di laurea garantito direttamente dallo stato veneziano: senza l’intervento del vescovo di Padova, tradizionalmente cancelliere dello Studium padovano, e senza quindi la costrizione – caso unico nell’Italia di allora – alla professio fidei catholicae imposta a partire dal 1564 dalla bolla In sacrosanta.

Alla fine la Riforma non attecchì in laguna, ma questo non significa che non influenzò in alcun modo la cultura e l’arte veneziana, che anzi avevano in qualche modo precorso – in particolare con il cenacolo di Murano animato Gasparo Contarini, poi fatto cardinale – alcune delle sue istanze spirituali. Così, come illustra l’autrice del libro, oggi possiamo continuare a vedere le tracce di quel periodo e di quelle idee nell’opera di artisti come Lorenzo Lotto e Jacopo Sansovino,  con le loro cattolicissime pale d’altare e chiese. Segno che, oltre gli scontri, idee e sensibilità sono più spesso porose che adamantinamente impermeabili: soprattutto in una città come Venezia.

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