Sono anni complicati quelli che viviamo. Nonostante la crisi economica sia oramai alle spalle, i suoi effetti e le situazioni pregresse che comunque questa ha avuto il potere di accentuare e portare allo scoperto spiegano ancora notevoli riverberi coi quali dovremo fare i conti nel presente e anche nel prossimo futuro. A dimostrazione e opportuna conferma che l’economia non è l’unico fenomeno determinante nella società complessa.
Per quanto attiene all’Unione europea, in tanti profilano la resa dei conti delineandone l’orizzonte temporale 2018-2019. Una resa dei conti, preparata nel 2018 e da fare culminare con le elezioni europee del 2019, spesso descritta come un’alternativa secca tra “Europa sì” ed “Europa no”.
Forse però la realtà è più complessa, proprio come la società coinvolta, e, mi sembra, anche più radicale rispetto ad una alternativa tra corni troppo semplicisticamente estremi.
Se la vera alternativa fosse tra ritornare agli Stati nazionali o conservare l’Unione europea, in fondo, saremmo davanti a una ‘non scelta’ perché il ritorno indietro non è (e non può essere) da nessuno realmente desiderato. Si tratterebbe, gattopardianamente, di inneggiare al cambiamento per non cambiare proprio nulla. Davvero si può pensare di ritornare con le lancette alla grande Francia, all’irresistibile Germania? Davvero i populisti europei possono pensare un’Ungheria, una Polonia, un’Italia, un’Austria – solo per indicare quattro casi – che fuori dalle garanzie e dalle risorse dell’UE possano rimanere semplicemente e singolarmente Stati sovrani?
Ho l’impressione che – al di là degli slogan e delle posizioni tattiche – l’alternativa sia ben più radicale e il rischio più concreto.
Spira oramai un ‘vento dell’Est’ che non mi sembra orientato alla cancellazione ma alla trasformazione, questo sì, dell’Unione europea in qualche cosa di differente. L’alternativa è tra una Unione fondata sui principi e sulle idee attuali – quelle maturate nel dopoguerra e che sono state portate avanti a strattoni ma con progressività dai Trattati di Roma in poi – e una Unione che si riconosce a pieno in una relazione funzionale inter-statuale dalla struttura più semplificata nelle forme e nelle linee di azione ma mossa da intenzioni fortemente individualistiche.
Un vento dell’Est, rappresentato da quella che nominerei ‘opzione Visegrad’, che va a corrodere lo spirito del progetto dell’UE e a modificarne geneticamente l’intera struttura in quei pilastri che ne costituiscono i punti di originalità, se non di orgoglio: giuridico, sociale, politico.
E perché dovrebbe preoccupare così tanto l’opzione (per altro non corrispondente al noto ‘Gruppo di Visegrad’)?
Innanzitutto perché è insidiosa e misconoscente. Non propone una svolta autoritaria, non ritiene che la democrazia sia da sostituire con altre forme di governo ma, al contrario, con lo strumentario populista cavalca la democrazia (diretta e direttissima pur se illiberale e proprio perché illiberale); seda il popolo e i popoli (intendendoli e idealizzandoli come unità coerenti e coese) illudendoli di una vana primazia; sventola la bandiera – sempre eccitante per le masse – della libertà e della sovranità identitaria all’insegna del superamento dei partiti politici e del leaderismo organizzato tecno-socialmente (cfr. Y. Mounk, The People Vs. Democraty, Cambridge, 2018).
E fa questo per raggiungere quale risultato?
Per togliere all’Unione europea quello che ne costituisce l’elemento più prezioso: l’idea di costruire un sistema su base giuridica e politica, di costruire una unione sulla base di una identità delle differenze, di arrivare a realizzare quella federazione del popolo europeo capace di essere dirimente rispetto alle opzioni di politica interna (cfr. E. Morin-M. Ceruti, La nostra Europa, Milano, 2013).
Non è tanto l’assenza di Unione che dovrebbe preoccupare, allora, ma la sua modificazione genetica.
L’Unione – per quanto certo le critiche (anche forti) non possono e non debbono esserle evitate (lucida e puntuale l’analisi di J. Habermas, Im Sog der Technokratie. Kleine politische Schriften XII, Berlin, 2013) – ha realizzato con uno sforzo soprattutto giurisprudenziale un modo europeo di pensare la vita sociale attraverso lo Stato di diritto; ha individuato un modello di società aperta; ha realizzato una politica democratica timida ma concentrata sull’inclusione, sulla conurbazione di welfare ed economia di mercato, sullo sviluppo non solo economico ma anche sociale, culturale e inter-culturale (cfr. G.F. Mancini, Democrazia e costituzionalismo nell’Unione europea, Milano, 2004, p. 81 ss. ma passim; L. Ferrajoli, La democrazia attraverso i diritti, Roma-Bari, 2013; C. Jorges, A Disintegration of European Studis?, in “European Papers”, 2016, n. 1, p. 7 ss.).
Il tutto si delinea attraverso una filosofia europea (non unitaria, coerente e omogenea, ma proprio in questo forse “europea”) che vede nell’inclusione, nell’eguaglianza, nella dignità il suo nucleo duro e fondamentale e che concretizza una democrazia europea dai tratti specifici (cfr. S. Rodotà, Vivere la democrazia, Roma-Bari, 2018).
L’“opzione Visegrad”, invece, propone una Unione che viene sfruttata alla bisogna ma senza vincoli (alias principi e idee di fondo) che non siano l’antica e sempre ritornate coppia amico-nemico di schmittiana memoria (rimane imprescindibile R. Esposito, Le categorie dell’impolitico, Milano, 1988 di cui anche il recente Politica e negazione, Torino, 2018). Lì dove l’amico è sempre temporaneo e legato alle esigenze del momento e il nemico è sempre istituito per garantire la chiusura del gruppo sociale-politico. Una democrazia nella quale la componente illiberale, contro democratica, sia giustificata da un sovranismo, di fatto, dal fiato corto e dalle gambe tremule. Col rischio che i popoli, ubriacati dalle promesse di potenza e ancora scoraggiati per gli anni di crisi, si accorgano troppo tardi della vacuità dell’illusione.
Se questo descritto è lo scenario, cosa fare?
Tra le critiche che si possono muovere a questa Unione c’è quella di non fare concretamente molto per mantenere l’alternativa all’opzione che si profila. Ad esempio parlando molto ma mancando di effettività nel preparare le elezioni del 2019, rimanendo in attesa di un momento che si riconosce centrale e decisivo e del quale si attende l’esito senza attivamente operare per orientarlo.
Il 2018, in particolare, dovrebbe rappresentare il momento di riflessione e di realizzazione di iniziative mirate per fare conoscere la realtà e prima ancora per comprenderla.
Certo non aiuta la struttura istituzionale dell’Unione che vede un potere molto concentrato nel Consiglio sulle volontà, divergenti perché individualiste, dei singoli Stati membri; una Commissione che non ha gli strumenti per affermare e non solo proporre una linea unitaria; un Parlamento ancora spesso troppo legato alle logiche delle politiche interne ai singoli Paesi di appartenenza. Un passo importante – tanto per indicare un esempio – è stato il sistema degli “Spitzenkandidaten” che non è però esente da problemi ma sul quale è necessario lavorare (per stare ad atti ufficiali cfr. la Risoluzione del Parlamento europeo 2015/2035(INL) e il Discorso sullo stato dell’Unione 2017). Sarebbe questo un ambito da perseguire per iniziare a rendere l’Unione capace di proporsi quale indipendente unità tra parti e non semplice somma di parti.
Ma proprio queste difficoltà, anche istituzionali, rendono ancor più necessaria un’azione marcata. Magari muovendo dalla cultura europea: il 2018 è l’anno della cultura europea, e da una generazione lasciata spesso ai margini: quella dei giovani che ereditano una situazione compromessa subendo e pagando esistenzialmente ma non riuscendo a farsi ascoltare ed a pesare realmente.
Come dicevo iniziando, i temi oggi in discussione non sono frutto delle crisi economica – come spesso pure li si intende con ulteriore semplificazione distorcente –, anche se questa li ha certamente favoriti e fatto emergere.
Sono problemi, vecchi e nuovi, che forse si possono ricondurre all’idea di democrazia, oggi pesantemente in discussione, e che chiedono riflessioni e soluzioni adeguate. Il prevalere dell’‘opzione Visegrad’ porterebbe al mutamento genetico della democrazia europea in ‘popolocrazia nazionale’ (cfr. I. Diamanti - M. Lazar, Popolocrazia, Roma-Bari, 2018), da intendere come populismo che si istituzionalizza al governo. Con le conseguenze che questo necessariamente comporta.
Ma come spesso capita, le crisi, i momenti di riflessione, i rischi, possono essere momenti di crescita e di miglioramento; per riprendere il noto verso del Patmos di Hölderling: “Wo aber Gefahr ist, waechst das Rettende auch”. Ed è in questo senso che spero si possa andare. Prendendo quanto il presente ci presenta come motivazione per fare quei passi in avanti che non si è riusciti a compiere in precedenza. Che ci sia un patrimonio genetico sul quale si rischiano oggi pesanti modifiche non significa che tutto quanto presente in quel patrimonio è stato sviluppato come poteva.
Insomma, il futuro non può essere semplicemente atteso, va costruito. E il momento è questo.
L’anno della cultura può essere l’occasione affinché una filosofa europea, tratteggiata a linee troppo larghe, diventi una filosofia per l’Europa (seguo la sollecitazione di R. Esposito, Da fuori, Torino, 2016, p. 4) che sia capace di ‘scavare un varco da parte del pensiero’, magari riuscendo a quadrare il cerchio e fare coincidere, come nota acutamente Pierre Rosanvallon, il “popolo principio” col “popolo-società” (P. Rosanvallon, La contre-démocratie, Paris, 2006, p. 299) o più modestamente (o ambiziosamente, a seconda dei casi) riesca a fare uscire fuori la mediterraneità ermeneutica che è alla base della spiritualità europea (cfr. J. Patočka, Europa und Nach-Europa, in Ketzerische Essai zur Philosophie der Geschichte und ergänzende Schriften, Stuttgart, 1988) ma che, comunque e in ogni caso, consenta di riprendere “une certaine idée de l’Europe” – usando la formula nel senso e con l’afflato di Pierre Pescatore (The Doctrine of Direct Effect, in “European Law Review”, 1983, p. 157) – che oggi sembra diffusamente smarrita.
Il processo di corrosione dell’Europa va contrastato non con affermazioni di principio o difese d’ufficio delle quali l’Europa e il mondo non hanno alcun bisogno, ma con un’azione che eviti – per usare l’immagine di Habermas – “dass die Demokratie in Europa noch weiter ausgehöhlt wird”, l’erosione dall’interno della democrazia europea (J. Habermas, op. cit., p. 117). E il popolo europeo (nominandolo così una volta prospetticamente al singolare) non va temuto ma svegliato, lì dove serve, alle ragioni della democrazia europea che non sono il portato dell’esclusione e della chiusura ma sono ragioni di civiltà, di pluralismo, di modo di concepire la vita e il suo rispetto.