SCIENZA E RICERCA

Dalle scimmie ‘umanizzate’ ai cervelli di suini revitalizzati: i confini della valutazione etica nella ricerca con gli animali

Non solo scimmie ‘umanizzate’, come è successo in Cina, ma anche cervelli di suini prelevati dai macelli e ‘resuscitati’, anche se solo per poche ore. All’università di Yale, in Connecticut, un gruppo di neuroscienziati ha sottoposto alcuni cervelli di suini prelevati da un macello ad un processo di rivitalizzazione attraverso un sistema chiamato BrainEX, messo a punto sulla base delle ricerche sviluppate nell’ambito del progetto BRAIN (Brain Research through Advancing Innovative Neurotechnologies). I cervelli dei suini sono stati collegati attraverso le carotidi ad un sistema di pompaggio simile ad un cuore artificiale che ha pompato una sorta di sangue artificiale a base di ossigeno, farmaci e nutrienti, per alcune ore prima di venire interrotto, per vedere se le cellule cerebrali, che normalmente si ritiene che entro pochi minuti, in assenza di ossigeno, vadano incontro a degenerazione irreversibile, recuperavano le loro funzioni – almeno quelle di base.

L’editoriale de Il Bo Live dei giorni scorsi, dedicato al caso delle scimmie geneticamente modificate tramite l’inserzione di un gene umano deputato allo sviluppo delle funzioni cerebrali, ha posto l’accento su un tema fondamentale: ‘Perché lo facciamo?’ Nel caso delle scimmie ‘umanizzate’, come commenta Telmo Pievani, sembra che, almeno in parte, lo facciamo per rispondere all’antico quesito su ‘che cosa ci rende umani?’, dimenticandoci tuttavia che non tutto quel che ci viene in mente per rispondere a questa domanda è lecito ed eticamente giustificabile, specialmente quando sono coinvolti animali ‘senzienti’ che vengono geneticamente modificati.

Nel caso del cervello dei suini il quesito sembra altrettanto antico: ‘È possibile sconfiggere la morte?’ soprattutto riguardo a ciò che ci rende più umani, il nostro cervello? A prima vista, l’esperimento condotto dai neuroscienziati dell’università di Yale sembra eticamente meno problematico del precedente, poiché non sono stati coinvolti animali vivi, geneticamente modificati per gli scopi della ricerca, bensì sono stati prelevati cervelli di suino dai macelli dove gli animali vengono normalmente uccisi per scopi alimentari. 

La ricerca, pubblicata su Nature il 18 Aprile, non avrebbe quindi procurato dolore e sofferenza ad animali vivi, ma addirittura si collocherebbe fuori dagli ambiti di competenza delle varie Normative nazionali (simili per questo aspetto nella maggior parte dei casi) sulla protezione degli animali sperimentali, perché sono state utilizzate solo ‘parti’ di animali già morti. 

E sin qui tutto bene: ma nel momento in cui i risultati della ricerca sono stati positivi, ed è stata rinvenuta un’attività cellulare, si è posto il vero problema: e se quelle parti ritornano a ‘vivere’? La sperimentazione su ‘parti vive di animali morti’ è un terreno inesplorato (non del tutto, dato che si fanno già ricerche sui tessuti cerebrali e su interi organi con funzionalità cellulare, ma non come in questa ricerca) e non esistono protocolli etici in merito che rispondano ai requisiti delle varie normative sulla sperimentazione animale.

E se quelle parti vive sono in grado di tornare a ‘sentire’ dolore e sofferenza? Quali sono i confini per definire ‘senziente’ una ‘parte’ di animale sottoposta a sperimentazione? I ricercatori di Yale hanno somministrato neurobloccanti per prevenire qualsiasi risveglio di coscienza nei cervelli trattati e hanno tenuto pronto un protocollo anestesiologico per ogni eventualità. Hanno inoltre sottolineato che in nessun modo la ricerca era rivolta a riattivare la funzionalità dell’intero cervello, bensì solo a verificare la sopravvivenza delle singole cellule. E dopo 6 ore hanno sospeso il trattamento.

Cosa impedisce, tuttavia, di promuovere altri esperimenti di questo tipo e prolungare il trattamento per osservare l’eventuale ripristino di una qualche attività cerebrale d’insieme? 

L’esperimento condotto a Yale, a cui va l’indubbio merito di aver esplorato un ambito potenzialmente ricco di implicazioni per la medicina umana, non ha condotto al ripristino di nessuna forma di coscienza nei cervelli di suino utilizzati, ma sembra importante applicare un Principio di Precauzione in assenza di un protocollo etico che preveda questa possibilità.

Quando smette, infatti, un animale - o una parte di animale - di essere senziente e quindi quando terminano i nostri obblighi di proteggerlo e tutelarlo dal dolore e dalla sofferenza?     

La valutazione etica dei progetti di ricerca che coinvolgono gli animali, prevista dalle varie Normative a protezione degli animali sperimentali, è complessa e articolata e progredisce di pari passo con il progredire della sensibilità dell’opinione pubblica su questo tema.

Essa deve essere messa a punto sia dai ricercatori quando pianificano un protocollo di ricerca, sia dai Comitati Etici quando devono approvare le ricerche, e si avvale di principi e griglie di analisi per cercare di essere il più possibile oggettiva e trasparente: dall’analisi costi- benefici, attraverso cui si cerca di valutare nel modo più preciso possibile se il sacrificio richiesto agli animali coinvolti sia compensato dagli scopi e dal valore della ricerca, sino all’applicazione del Principio delle Tre Erre.

Il Principio delle Tre Erre in particolare, Replacement – sostituzione , Reduction – riduzione, Refinement – perfezionamento, formulato per la prima volta nel 1959, è diventato oggi il simbolo dell’impegno etico verso la protezione degli animali impiegati nella ricerca. Le Tre Erre rappresentano l’impegno della comunità scientifica a sostituire sempre più e in qualsiasi modo possibile gli animali e le procedure che li coinvolgono nelle ricerche; a ridurre tutto ciò che si può ridurre, dal numero di animali, al numero di esperimenti, alla quantità di dolore e così via; sino al perfezionamento delle procedure sperimentali e delle condizioni di benessere degli animali, secondo un processo costante e in continuo progresso, il cui fine ultimo, se non è quello di eliminare totalmente l’impiego degli animali, è però quello di ripensarlo il più possibile.     

 Le questioni etiche sollevate dalla ricerca sperimentale sono numerose e importanti, sia per la protezione degli animali sia per le potenzialità applicative in ambito umano e la comunità scientifica ha una reputazione che deve essere difesa e tutelata in maniera molto attenta: non tutto ciò che si può fare deve essere fatto e in questo delicato equilibrio tra potere e dovere si gioca la rilevanza e l’efficacia della valutazione etica delle ricerche con gli animali.

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BARBARA DE MORI

Laureata a Padova in filosofia morale nel 1996, e con un dottorato di ricerca in Etica, Barbara de Mori lavora presso il dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione e insegna bioetica animale ed etica del benessere animale nei corsi di laurea in Medicina Veterinaria, Animal Care e Biotecnologie dell’università di Padova. Si occupa di questioni etiche nell’ambito del benessere e della gestione degli animali nella conservazione, nella sperimentazione, nell’allevamento intensivo, nella pet therapy. È responsabile di accordi di cooperazione internazionale e collabora con Università statunitensi ed europee, con Enti e Università in Sudafrica e in Cina. E’ Direttore dell’Ethics Laboratory for Veterinary Medicine, Conservation and Animal Welfare dell’Università di Padova e della rivista Internazionale Journal of Applied Animal Ethics Research. È membro di Comitati etici per la sperimentazione e per le attività assistite con gli animali e dirige i Corsi Post Lauream in Conservation e Animal Welfare Ethics. È responsabile della collana editoriale Etica e Bioscienza per l’editore Mimesis e membro di comitati scientifici di riviste e di organizzazioni scientifiche.

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