CULTURA

Giuseppe De Nittis e la Parigi degli impressionisti

Le scale eleganti e luminose di Palazzo Zabarella sembrano portare all’appartamento di Peppino, quello in rue de Viète, a Parigi. Ed eccolo lì, appena sul pianerottolo, appoggiato al camino, le braccia incrociate dietro alla schiena, la giacca che tira un po’ sul ventre, voltato a guardare chi arriva, con quell’aria di giovane uomo soddisfatto di sé. Alla parete accanto è seduta, in bianco, la bella ed eterea Titina, moglie amata. Due cartellini accanto ai quadri: sono i coniugi De Nittis nei primi anni Ottanta dell’Ottocento. Pastello su tela.

Inizia così, con il benvenuto dei padroni di casa, il barlettano Giuseppe De Nittis e la moglie francese Lèontine Gruvelle, la mostra allestita a Padova in onore del pittore italiano che a Parigi, sua città d’adozione, guadagnò successo e riconoscimenti, simpatia e fortuna, denaro e fama. Perché l’amore per Parigi e la Francia fu ricambiato e totalizzante, verde, blu, nero e rosso, come i suoi parchi, i cieli tersi, i vestiti leggeri delle signore lungo i boulevard, i fiori nei giardini, le giacche delle amazzoni, le stoffe dei salotti; così come invece appare struggente e abbagliante il legame con la terra natìa, gialla di sole, macchiata del marrone dei cavalli e dei carri, sulle strade dritte, secche, essenziali. Disegnate usando registri differenti ma modulati entrambe su toni d’emozioni e luce, d’“atmosfera”, come lui la definisce: “Conosco tutti i colori, tutti i segreti della natura, dell’aria, del cielo. Oh! Il cielo. Quanti quadri ne ho fatti! Cieli, cieli soltanto, con delle belle nubi”, scrive nel suo Taccuino.

La mostra diventa racconto per immagini d’una vita inquieta e libera, appassionata e ispirata, fin da bambino, dall’amore per la pittura anti-accademica, frutto di lunghe passeggiate all’aria aperta, col cavalletto in spalla, pronto a mettere su tela quello che attirava la sua attenzione, a cogliere la realtà com’era, o come gli sembrava che fosse, in quell’attimo preciso. “È la vita per cui sono nato: dipingere, ammirare, sognare”. Lo troviamo in riva all’Ofanto negli anni Sessanta, e nel bosco, in spiaggia, sulla strada appenninica, ma anche, nei primi anni Settanta, sulla panchina del giardino parigino, vicino al muretto coperto di rose al momento del ritorno dal ballo. Contano, oltre alla curiosità dell’artista per una nuova realtà urbana e umana, anche le richieste di soggetti alla moda formulate dai mercanti, che Peppino cercò di ingraziarsi per guadagnare un posto al sole nella capitale francese, dove riuscì a stabilirsi definitivamente nel 1868. La sua naturale simpatia, unitamente ai suoi interessi artistici e alla preziosa opera di relazioni pubbliche intessute dalla moglie Lèontine, fa sì che la sua casa diventi luogo di ritrovo di artisti e intellettuali come Manet, Degas, de Goncourt, Claretie, Hérédia, Dumas figlio; raccontava il giornalista Folchetto: “Quando Peppino appariva sulla porta della sala da pranzo, con un immenso piatto di lasagne alla barlettana da lui stesso sapientemente preparato, e di cui era orgoglioso quanto dei suoi quadri, era accolto con dei 'Viva de Nittis' da quegli invitati eccezionali”.

Le scene di vita parigina al Bois de Boulogne dei primi anni Settanta, rendono subito evidente il cambio di tono e soggetto che il trasferimento oltralpe porta con sé, dove la mano del pittore è innegabilmente la stessa, ma riporta gli esiti della vita in un ambiente edulcorato, implacabilmente differente, filtrato attraverso gli occhi dell’alta borghesia cui appartiene, tanto da rimanere sconvolto durante le sue visite a Londra: “No. Parigi non conosce la degradazione umana e la disperata miseria dei bassifondi di Londra. Con il sole e la gaiezza i poveri del mio paese restano ottimisti, perfino allegri; l’aria, il cielo, la luce sono di tutti”. I poveri, nei suoi quadri parigini di quegli anni, non ci sono; la sua è una visione idealizzata della città, brulicante di elegantissime dame a passeggio, a cavallo, sui pattini, con ombrellini vezzosi e cagnolini piccolissimi. Il “pittore delle parigine” veniva talvolta chiamato. Il tratto, le sfumature, i vuoti, i colori, quella ricerca della luce, quella volontà di sfuggire ai temi classici che l’hanno affiancato al gruppo degli impressionisti, ritornano; sono gli stessi di una serie di magnifiche tavole dedicate a paesaggi vesuviani che lo impegnarono fra il 1872 e il ’73 e che colpiscono per la schiettezza e la semplicità dei temi, in contrasto puro con la produzione parigina. E’ questa doppia anima di De Nittis, in equilibrio perfetto fra mondanità parigina e crinali campani, mantenuta insieme da una stessa immagine fortemente interiorizzata della realtà, che ritorna in tutte le opere della mostra, attenta alle richieste del mercato ma anche libera di sperimentare nuove linee, nuove luci, nuove “inquadrature” del soggetto: primi piani assoluti con sfondi abbozzati ma brulicanti di vitalità, prospettive quasi cinematografiche, soggetti anticonvenzionali, richiami all’arte giapponese.

Nel 1874 De Nittis, non avendo ancora conosciuto bene Londra, l’aveva ritratta come fosse la sua Parigi. Ci era andato quell’anno, quasi in fuga, il giorno prima dell’inaugurazione della mostra degli impressionisti  nello studio parigino del fotografo Nadar, dove aveva accettato di esporre assieme agli amici Degas e Manet. Fra il 1875 e il 1879 Londra diventò per lui una meta abituale, luogo d’ispirazione e guadagno. “È la Londra che mi ferisce. Che mi turba”, confessa Peppino quando  la scopre davvero. Eppure vi trova una seconda patria artistica, e una libertà di movimento ed espressione che alimentano una straordinaria potenza visiva, che letteralmente stampa su tela impressioni quasi fotografiche di un’umanità più varia e reale, dove alle spalle dei gemelli infagottati in pizzi bianchi chiede l’elemosina una donna abbracciata al figlioletto lercio; ci si ritrova nella fretta di figure che attraversano la strada gremita di carrozze a Piccadilly, travolti in corsa “Sotto al viadotto” e appoggiati al parapetto del ponte di Westmister, quadro immenso,  per misure e qualità, che gli valse la medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Parigi del 1878.

La rifrazione luminosa della nebbia di Westmister si sfalda nel fumo del treno che taglia la campagna pugliese (Passa il treno, 1878-1879) introducendo l’ultimo capitolo della vita intensa, ma breve, di Peppino  che, ancora giovane, è spesso malato. Non rinuncia però alla sperimentazione, raggiungendo risultati notevoli anche col pastello;  aumenta  la sua produzione di vedute d’interni e di figure umane, alla luce delle lampade, nei salotti della principessa  Matilde. Usa spesso toni scuri, forse guidato dalla stanchezza frutto della cattiva salute: “Parigi distrugge tutti” afferma, e scappa in campagna. Ritrova la pittura en plein air, lascia la mondanità e si dedica all’amatissima famiglia che ritrae nel 1884 in un ultimo capolavoro,  un testamento artistico e spirituale, “Colazione in giardino”: nella penombra del giardino della casa di campagna  siedono al tavolo del tè Titina e il figlio Lolo, sullo sfondo le oche riposano pigre, e una sedia scostata lascia immaginare la presenza invisibile di papà Peppino che guarda con amore la scena, fissandola sulla tela con incredibile emotività. Morì quell’agosto, a 38 anni.

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